Martin Munkácsi

Martin Munkácsi

Martin Munkácsi (vero nome Mermelstein Márton) nato a Cluj-Napoca (Romania) il 18 Maggio 1896 e morto a New York il 13 Luglio 1963.

Inizia la sua carriera come fotografo di sport per un quotidiano ungherese. Questa esperienza nello sport gli serve per poter capire la tecnica di catturare il movimento anche quello più veloce. Per l’epoca, con gli apparecchi fotografici che si potevano utilizzare, la fotografia sportiva era davvero una materia molto complicata. Pensiamo semplicemente alle pellicole non molto sensibili e alle aperture del diaframma molto strette.


Martin Munkácsi riesce in qualcosa che nessuno mai prima prova a fare, portare il movimento nella fotografia di moda. La fotografia glamour dell’epoca era esclusivamente statica. Diviene così un fotografo molto famoso e apprezzato tanto da essere il fotografo di moda più pagato dell’epoca.

Ci sono alcune immagini iconiche in cui Munkácsi immortala le modelle mentre saltano da un marciapiedi con un ombrello. Aspettate un attimo….solo a me viene in mente una celebre fotografia di Henri Cartier-Bresson di un uomo che salta con un ombrello? Questo è un ottimo spunto per dire che Cartier-Bresson ha studiato molto le immagini di Martin Munkácsi tanto da sentirsi ispirato e cercare di emularne la capacità di fermare un attimo. Oltre a Cartier-Bresson anche un altro celebre fotografo prende spunto dalla ricerca del cogliere l’attimo fuggente (beh qui era proprio perfetto :)) Richard Avedon (era un fotografo ritrattista statunitense celebre per i ritratti in bianco e nero).

Ma Munkácsi era famoso anche per i suoi scatti irriverenti, in cui cercava ironia e soprattutto il suo approccio alla fotografia era gioioso e emotivamente positivo.
Nel 2012 la rivista Times lo cita come una delle cento personalità che più hanno influenzato il mondo della moda nel secolo scorso.
Purtroppo gli ultimi anni della sua vita non li passa molto bene. Muore in assoluta povertà a New York il 13 Luglio 1963.

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Come funziona una reflex

Come funziona una reflex

In questo articolo parliamo di come funziona una reflex.

Reflex in inglese significa riflesso. Immaginiamo (vedi immagine di seguito) il percorso che fa il raggio luminoso entrando nell’obiettivo. Il raggio luminoso entra nell’obiettivo, arriva ad uno specchio che lo porta verso l’alto capovolto, entrando in un pentaprisma (sistema di 5 prismi) che lo fa arrivare al mirino così da permetterci di vedere quello che stiamo inquadrando.

Nel momento in cui premiamo il pulsante di scatto lo specchio si alza e fa passare il raggio luminoso facendolo arrivare al materiale fotosensibile (pellicola o sensore) che lo scompone e registra l’immagine. Quindi il sistema Reflex ci permette di vedere quello che stiamo effettivamente inquadrando rispetto alle fotocamere “inquadra e scatta” che hanno il mirino non sullo stesso piano dell’obiettivo.

Fotocamera inquadra e scatta analogica

Questo semplificando è il modo di come funziona una reflex.

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Diffrazione

Diffrazione

La diffrazione è una problematica della fotografia conosciuta già dagli albori. Si riferisce al percorso della luce che entra all’interno dell’obiettivo che trova lungo il suo percorso il diaframma.

La diffrazione ha questa caratteristica: il raggio luminoso attraversa l’obiettivo e arrivando al materiale fotosensibile (pellicola o sensore) incontra sulla sua strada il diaframma che se è di diametro totalmente chiuso crea un effetto ventaglio o comunque di variazione della direzione dei raggi. Questo provoca una fotografia con una qualità bassa e per poter avere un’immagine con una massima qualità bisognerà utilizzare un’apertura del diaframma medio.

Tutti gli obiettivi hanno una piccola, media e grande apertura e tutti nella apertura media hanno i valori uguali cioè tra f8 e f11. Per poter avere il massimo della qualità di quell’obiettivo, quindi, è consigliabile utilizzare un diaframma medio e per comodità utilizziamo f9. Il problema di questa scelta della apertura è direttamente collegato alla profondità di campo (di cui ho approfonditamente parlato in questo articolo). Riepilogando sappiamo che con diaframma aperto si ha il soggetto principale a fuoco e il restante sfocato e il contrario con un diaframma chiuso.

Quindi sapendo che esiste la diffrazione bisogna avere le nozioni tecniche fondamentali per capire come e quando utilizzare un diaframma medio. Non è sempre necessario cercare la qualità massima della fotografia e quindi l’utilizzo e la comprensione della apertura del diaframma è di cruciale importanza.

Numerosi testi di fotografia hanno trattato questo argomento ma ne prendo uno come esempio (Il Manuale del Fotografo di John Hedgecoe – Arnoldo Mondadori Editore del 1978) che recita: “Direzione secondo cui le onde luminose sono costrette a deviare o subiscono un effetto di diffusione, per essere costrette ad attraversare una stretta fessura (diaframma) o per essere contigue ad una superficie opaca. La diffrazione diminuisce la qualità dell’immagine e si verifica quando l’obiettivo è regolato su un’apertura minima, ad esempio f/45. Le foto migliori si ottengono a metà strada, con la gamma di aperture alle quali si bilanciano le aberrazioni e non si è ancora presentata la diffrazione”.

Rispetto alla grandezza del sensore devo aprire una parentesi perchè l’utilizzo del diaframma, medio nelle fotocamere con sensore Full Frame, è tra f8 e f11, quindi per avere una massima qualità di immagine dobbiamo utilizzare una tra queste aperture (f8 – f9 – f11). Ma ricordiamo che la profondità di campo, che è quanto si vede a fuoco tra il soggetto principale e gli altri presenti nella scena, varia secondo l’apertura del diaframma. Più è aperto (f2.8 ad esempio) più il soggetto principale risulterà a fuoco e i soggetti posti a distanze diverse risulteranno sfuocati. Quindi se siamo abbastanza vicini al soggetto, con un diaframma medio, ci troveremo uno sfuocato dietro il soggetto principale (come nell’immagine seguente).

Per quanto riguarda la dimensione del sensore anche questo concetto cambia. Con un sensore Full Frame troveremo il problema della diffrazione già oltre l’apertura di f11, con un sensore con formato più piccolo (ad esempio APS-C) lo troveremo già dopo f8 e con un sensore ancora più piccolo (ad esempio un micro 4/3) lo troveremo già dopo f5.6. Faccio un esempio pratico: foto al volto volendo avere la massima qualità di immagine e con uno sfuocato “artistico” alle spalle del soggetto, con un sensore Full Frame posso utilizzare un f11, con un sensore APS-C posso utilizzare un f8 o f9 e con una 4/3 (o micro 4/3) utilizzo un f5.6. Il risultato sarà lo stesso in termini di profondità di campo (sfuocato dietro il soggetto) e avremo la massima qualità di immagine possibile per quella dimensione di sensore.


Di seguito vedete tre immagini di uno stesso soggetto ma con tre diaframmi diversi: f2.8 – f9 e f32. A grandezza normale non sembra che ci sia differenza ma andando nel particolare si evince la maggiore nitidezza (qualità) del diaframma f9.

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Nikon D90

Nikon D90

La Nikon D90 è una fotocamera reflex digitale con sensore in formato DX (cioè APS-C grandezza di 23,5×15,7mm) prodotta dal 2008 al 2010.
La D90 è stata una macchina molto ben riuscita e anche longeva, tanto è vero che ancora oggi è utilizzata.

Nella fotografia medica e dentale ha fatto storia tanto che era considerata la fotocamera ideale per questo scopo.

Era equipaggiata dallo stesso sensore della Nikon D300, da 12,3 MegaPixels, e con una mia personale considerazione donava una colorazione neutra anche scattando con automatismi.


Dopo la semi-professionale D300, la D90 è la prima fotocamera di fascia intermedia, in casa Nikon, a montare il sistema LiveView, mentre è la prima reflex in assoluto a registrare filmati, perlopiù in formato HD (1280 x 720) a 24 frame al secondo in MPEG compresso.

Un altro grande pregio della Nikon D90 è che ha il corpo tropicalizzato, cioè resistenti agli agenti atmosferici e a temperature estreme, questa caratteristica di solito è ad appannaggio delle fotocamere professionali.

ll display principale, sul retro del corpo macchina, è di 3 pollici per 920.000 punti; un secondo display LCD retroilluminato, con informazioni sulle impostazioni di scatto correnti, si trova sulla parte superiore del corpo macchina. Informazioni sui dati di scatto sono riportate anche all’interno del mirino a pentaprisma. Nel corpo macchina è presente anche un flash a scomparsa con numero guida pari a 17 (a 200 ISO). La macchina ha una interfaccia USB 2.0 e monta schede di memoria SD, con supporto SDHC.


Una particolare caratteristica che si differenzia rispetto ad altre fotocamere di pari caratteristiche è che la sensibilità ISO minima disponibile è di 200 e si estende al massimo a 6400.

Fra i numerosi optional disponibili per la macchina c’è l’impugnatura MBD80 (la stessa della D80), che offre la possibilità di alimentare la macchina con due batterie Nikon, o con un set di comuni batterie “stilo”, per aumentare l’autonomia di scatto della macchina. Nel 2011 la Nikon Corporation ha lanciato sul mercato la D7000 modello destinato a sostituire la D90.

Concludendo esprimo una mia personale considerazione su questa splendida fotocamera anche perché l’ho utilizzata per tanto tempo in ogni condizione.
La Nikon D90 è una fotocamera che permette di avere dei file di ottima qualità ma soprattutto con una colorazione molto neutra. È stata utilizzata moltissimo nella foto dentale proprio per la giusta colorazione e anche per la sua compatibilità con sistemi di flash macro come i Flash Wireless Gemellari Nikon SB-R200. È possibile utilizzare ogni tipo di obiettivo con autofocus perché il motore è interno alla fotocamera.

Caratteristiche:
Sensore: APS-C (23,5×15,7mm fatt. 1,5x) 12,3 MegaPixel
File: RAW (NEF) e JPG
Autofocus a 51 aree dinamiche
Sensibilità ISO: da 200 a 6400
Velocità di scatto: da 30 secondi a 1/4000
Flash integrato Pop-up TTL
Corpo in lega di magnesio tropicalizzato
Schermo: 3,0 pollici
Memoria SD con supporto SDHC
Batteria Nikon ricaricabile
Dimensioni: 132x103x77mm
Peso: 700g

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Nikon D90 - Vista frontale senza obiettivo
Vista 45 gradi
Nikon D90 - Vista superiore

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John Paul Edwards

John Paul Edwards

John Paul Edwards (Minnesota, 5 giugno 1884 – Oakland, 1968) è stato un fotografo statunitense, e membro del Gruppo f/64.

Trasferitosi in California nel 1902, non si sa come John Paul Edwards iniziò ad interessarsi alla fotografia, ma già nei primi anni venti era un membro dell’Oakland Camera Club, della società fotografica di San Francisco Society e del Pictorial Photographers of America.

Le sue prime fotografie erano in stile pittorialista, ma verso la fine degli anni venti mutò in un puro stile diretto. Intorno al 1930 Edwards incontra Willard Van Dyke e Edward Weston. Entro due anni erano diventati buoni amici, e nel 1932, Edwards è stato invitato ad essere uno dei membri fondatori del Gruppo f/64, insieme con Weston, Van Dyke, Ansel Adams, Imogen Cunningham, Sonya Noskowiak e Henry Swift. Ha partecipato alla caratterista mostra del Gruppo f/64 presso il Young Memorial Museum, in cui venivano mostrate nove immagini di barche, catene di ancoraggio e carri agricoli.

Ha continuato a fotografare per molti anni dopo che il Gruppo f/64 si sciolse nel 1935, ma non ebbe la fortuna che ebbero gli altri membri del gruppo. Nel 1967 lui e sua moglie donarono un’importante collezione di fotografie all’Oakland Museum. È morto ad Oakland, in California nel 1968.

John Paul Edwards - 1920
cipressi 1920
montagne 1930
John Paul Edwards - the east river
John Paul Edwards - cipressi 1920 circa

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Obiettivi

Obiettivi

In questo articolo vi parlo in modo dettagliato degli obiettivi, la loro storia, le caratteristiche e il loro utilizzo. Per fotografare non serve solo una fotocamera ma anche una lente, o serie di lenti, che permettono alla luce di convogliarsi verso il sensore (o il materiale sensibile) in modo tale da formare l’immagine.

Storia

I primi studi sulle lenti risalgono al 1500 in cui vengono creati lenti e diaframmi applicati al foro stenopeico migliorando la qualità delle immagini proiettate sulle pareti. Un attimo, fermi tutti, che cosa è il foro stenopeico? Per questa spiegazione dobbiamo scomodare Leonardo Da Vinci e la sua invenzione, la Camera Obscura. Era una camera stagna con un foro su una parete dal quale entrava la luce e veniva proiettata sulla parete opposta (capovolta). L’artista di turno faceva un bozzetto con misurazioni di quello che gli interessava e poi andava in studio e faceva la foto…. Ma che dico siamo nel 1500 🙂 …disegnava il quadro. Ma il primo vero obiettivo per la fotografia è stato sviluppato nel 1829 da Charles Chevalier che realizza le prime due lenti acromatiche, composte da un elemento positivo e da uno negativo con vetri ottici di potere dispersivo uguale e contrario. Produsse anche, per le fotocamere sviluppate da Alphonse Giraux (Dagherrotype), un obiettivo con focale di 403mm con diaframma f/11. Successivamente nel 1840 nasce il primo obiettivo calcolato matematicamente da Joseph Petzival con luminosità f/3 (che vedete nell’immagine di seguito).

Riepilogo del termine Reflex

Ripetiamo il significato del termine “Reflex” così dà capire meglio di cosa stiamo per parlare. Infatti quello che noi vediamo all’interno del mirino è esattamente ciò che, premendo il pulsante di scatto, andremo a impressionare. Questa valutazione è molto importante perchè se utilizzassimo una fotocamera con mirino non sullo stesso asse dell’obiettivo non avremo la stessa visione di quello che vediamo.
Questa problematica è stata presente nelle fotocamere analogiche (anche le prime digitali) “inquadra e scatta” che venivano anche vendute in formato usa e getta, avevano un mirino su un lato in alto e non si vedeva esattamente quello che avrebbe visto l’obiettivo.
Usando queste fotocamere per un uso casalingo (essendo anche molto economiche) non c’erano grossi problemi, ma se le avessimo utilizzate in ambito medico (o specialistico) sarebbe stato impossibile registrare correttamente i giusti piani di riferimento (ad esempio quelli anatomici).

Entriamo nel vivo

La traduzione inglese di obiettivi fotografici è “lens” io crede che essa renda meglio il concetto di cosa è un obiettivo, un insieme di lenti adattate a gruppi in un barilotto, di materiale plastico o metallico, che permette di convogliare la luce sul sensore o sulla pellicola.
Gli obiettivi si dividono in due famiglie, quelli fissi e quelli a focale variabile (detti comunemente zoom).


La lunghezza focale (il numero espresso in mm) è la distanza che c’è tra il centro ottico dell’obiettivo e il sensore (o il materiale sensibile), quando è variabile il centro ottico cambia e di conseguenza anche la sua distanza dal sensore.


Gli obiettivi si dividono anche in altre categorie: grandangolari (da 18 a 35mm), normali (da 35 a 60mm) e teleobiettivi (oltre i 60mm).
La differenza in queste ultime categorie, oltre alla lunghezza focale, è l’angolo di visuale (angolo di campo) nei grandangolari è 60° o superiore, nei normali va tra i 45° e i 60° e in quelli tele inferiore ai 60°. Il cambio di angolo di campo non significa perdita di qualità ma solo un cambio di visuale.
Quando si parla di obiettivo, e di luce che arriva al sensore, dobbiamo anche analizzare e comprendere che cosa è il diaframma e come funziona.


Sulla parte finale dell’obiettivo verso l’attacco che va alla fotocamera si trovando delle lamelle che si aprono e si chiudono in base all’utilizzo scelto.
Quando si acquista un obiettivo e si leggono le sue caratteristiche si può notare una lettera “f” minuscola con un numero 2.8, 3.5 o 5.6 che indicano la “luminosità” cioè l’apertura massima del diaframma. Più questo numero è basso e più è grande l’apertura del diaframma infatti gli obiettivi cosiddetti luminosi hanno una ampia apertura (1.2 – 1.4 – 1.8 – 2.8) ma proprio per questo sono anche molto più costosi degli obiettivi con minore apertura.
Di solito gli obiettivi con aperture elevate e quindi molto luminosi sono anche costruiti con una maggiore qualità di solito sono a focale fissa ma si trovano in commercio anche degli ottimi zoom molto luminosi.
Ho trattato in modo particolare la questione esposizione in questo articolo.
I valori dei diaframmi sono delle frazioni che dividono la lunghezza focale (f) al numero scelto infatti facendo un esempio: su un obiettivo 50mm impostando un diaframma f/2 sappiamo che il diametro del foro è di 25mm (50 diviso 2).

Obiettivi - differenze della lunghezza focale
Obiettivi - differenza angolo di campo

Distorsione

La distorsione è una problematica ottica che è presente in ogni apparecchiatura fornita di lenti. Solo gli obiettivi normali e gli obiettivi macro sono privi di distorsione mentre tutti gli altri (anche se minima) hanno questa problematica. Gli unici obiettivi che hanno la possibilità del controllo della distorsione sono quelli decentrabili (alla fine dell’articolo ne parlo). Tornando al tipo di distorsione prssente negli obiettivi dividiamo in due tipi: la distorsione a barilotto, che colpisce normalmente gli obiettivi grandangolari, e quella a cuscinetto, che colpisce i teleobiettivi. Credo che una immagine valga più di mille parole, quindi vi faccio vedere la differenza delle distorsioni con le immagini di seguito.

Obiettivi di uso specialistico

Dobbiamo dividere le famiglie degli obiettivi in altre due per usi scientifici (quindi con costi anche più elevati): obiettivi macro e obiettivi decentrabili. In realtà ci sono anche gli obiettivi chiamati FishEye (occhio di pesce) che hanno un angolo di campo molto esteso tanto da poter scattare foto a 180° ma credo che questi siano esclusivamente per appassionati e per scopi specifici.
Gli obiettivi macro hanno una caratteristica sostanziale, rispetto a quelli normali, si possono avvicinare molto al soggetto con ingrandimenti di 1:1 e oltre. Essendo stati creati per scopi scientifici non hanno distorsione. Se volete approfondire la fotografia macro potete andare su questa pagina


Gli obiettivi decentrabili sono stati creati per scopi geometrici e ingegneristici. Tramite una manopola si può decentrare la lente così da rendere le linee di edifici diritte senza la comune distorsione grandangolare a barilotto. Come già detto questi ultimi obiettivi non sono necessari nel armamentario di ogni fotografo, professionista o amatore che sia, ma sono per scopi specifici e soprattutto hanno un costo elevato.

Fattore di Crop

Un’ ultima considerazione molto importante è con quale sensore è equipaggiata la vostra fotocamera. Esistono due tipi di sensori, per uso generico, quelli Full Frame (pieno formato) e quelli APS-C (un po più piccolo). Esistono anche altre grandezze per esempio i formati ancora più grandi dei Full Frame ma sono per scopi molto specialistici e con costi elevatissimi. Se montiamo un obiettivo da 50mm su una fotocamera Full Frame avremo un angolo di campo di 47°. Se invece lo stesso obiettivo lo montiamo su una fotocamera con sensore APS-C dovremo moltiplicare alla lunghezza focale un valore (dichiarato dalla casa madre) chiamato “fattore di Crop”. Quindi, facendo un esempio con Nikon, se montassimo un obiettivo 50mm su una APS-C dovremo moltiplicare 1,5 (fattore di crop della Nikon) a 50mm quindi diventerà 75mm e l’angolo di campo invece di 47° diventerà intorno ai 30°. Nella pratica avremo semplicemente un avvicinamento al soggetto. Questo concetto è particolarmente importante nella scelta degli obiettivi perché se voglio scattare panorami devo sapere che se acquisto un 18mm e ho una APS-C sarà 27mm.

Concludendo

In questo articolo vi ho dato una infarinatura di che cosa sono gli obiettivi e quali sono i vari tipi e utilizzi. La scelta su quale sia giusto da acquistare bisogna che la facciate voi in base a quello che fotografate di più e soprattutto al vostro budget. Vi do qualche idea per aiutarvi:

Panorami – Grandangolo
Ritratti – Da 50 a 100mm
Sport – Tele
Safari – Tele spinto
Uso generico va benissimo uno zoom che copra una lunghezza focale di 18-300mm.

Se avete bisogno di acquistare fotocamere, obiettivi e accessori potete andare su questa mia pagina dove troverete un grande elenco con i vari link per l’acquisto.

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Walker Evans

Walker Evans

Walker Evans nato a Saint Louis il 3 Novembre 1903 e morto a New Haven il 10 Aprile 1975.
La sua era una famiglia abbiente, il padre lavorava nel mondo della pubblicità e per lui la vicinanza alla fotografia diventa naturale. Fin da piccolo riesce a prendere dimestichezza con la macchina fotografica.

Il primo approccio all’arte

In realtà il primo approccio artistico di Walker Evans non è stata la fotografia ma la letteratura. Studiò in Pennsylvania, Connecticut e Massachusetts prima di trasferirsi per un anno a Parigi. Al ritorno a New York cerca di sfondare nel campo della letteratura come scrittore. A Parigi entra in contatto con Eugene Atget e la sua allieva Berenice Abbott che avranno un grosso impatto nella sua formazione e nello stile della sua fotografia.
Nel 1930, dopo aver capito che non avrebbe sfondato come scrittore, inizia l’avventura nella fotografia ma la letteratura resta sempre il suo primo amore. New York era una città piena di grattacieli, grandi palazzi e con una fisionomia industriale. Walker Evans fotografa La Grande Mela così come è senza cercare espedienti estetici.

Cuba 1933

Viaggia Cuba, nel 1933, dove stringe amicizia con Ernest Hemingway. A Cuba si immerge totalmente nella vita dell’isola dove scatta, con tratti sempre realistici, la vita quotidiana. Per paura che i suoi scatti potessero risultare sovversivi, prima di partire, Evans affida 46 immagini a Hemingway. Queste immagini perse e ritrovate solo dopo molto tempo, nel 2002.

La Grande Depressione Americana

Cercando di contrastare la Grande Depressione, il New Deal di Roosevelt, favori il lavoro di alcuni fotografi in particolare Walker Evans che nel biennio 1935/1936 riesce a catturare momenti di vita quotidiana degli americani di provincia. La FSA (Farm Security Administration), un’istituzione del ministero dell’agricoltura, fa entrare Evans all’interno della cosiddetta “unità storica” facendogli percepire uno stipendio regolare. La sua missione all’interno della ”unita storica” era un’indagine fotografica nell’America rurale, soprattutto negli Stati Uniti del Sud. Decide di fotografare la vita quotidiana di “provincia” con una vecchia fotocamera perché aveva intenzione di ribadire il momento di crisi nazionale e poi era quello che aveva fatto anche il suo “maestro” Eugene Atget a Parigi. Con questa fotocamera obsoleta cattura immagini di chiese, lavoratori e insegne sbiadite proprio per rimarcare il momento di profonda crisi nazionale.

Insieme allo scrittore James Agee collabora ad un testo dal nome “Let Us Now Praise Famous Men (Sia lode ora a uomini di fama) “ nel 1941. All’interno di questo lavoro troviamo fotografie di Walker Evans, senza la ricerca estetica (quindi documentando la realtà), che documentano la cruda realtà della Grande Depressione. Questo lavoro di Evans e di Agee è stato commissionato dalla rivista Fortune anche se dopo aver visto il materiale raccolto dai due lo aveva giudicato troppo realistico, complesso e crudo. I protagonisti del libro sono la vita delle famiglie dei coltivatori di cotone, fotografate negli anni 30 nelle zone più povere degli Stati Uniti. Il libro è stato poi ripubblicato nel 1960.

Nel 1938, al Museum of Modern Art a New York, espone per la prima volta con una sua mostra personale con la quale il pubblico gli riconosce la capacità di aver catturato la realtà della vita quotidiana degli americani.
Evans entra a far parte dello staff della rivista Times, nel 1945, e successivamente anche di Fortune con cui collaborerà per molti anni (20 anni).
La Yale University School of Art gli da la docenza, nel 1965. Scattando sempre meno insegnerà fino alla fine dei suoi giorni. Negli ultimi anni Walker Evans scatta con una Polaroid SX-70. Questo innovativo modo di fotografare vedendo subito il risultato gli permette di trovare altre forme espressive.

Walker Evans era una persona molto schiva e introversa, non amava parlare di se. Nel 2008 l’ex moglie pubblica una sua biografia che rivela il vero suo vero carattere. Nella biografia si evince che Walker Evans era una persona eccentrica, con uno spirito determinato, ma anche con carattere snob egocentrico.


Nell’arco della sua vita da artista gira l’America alla ricerca di quelle situazioni che facessero intravedere la realtà quotidiana. Per esempio ha girato in metropolitana con una fotocamera nascosta nel cappotto fotografando persone comuni e quindi lo scorrere della vita.
La voglia di Walker Evans non era quella di mostrarsi un artista ma voleva documentare la realtà senza manipolazioni e senza dare una propria idea. Ecco perché è considerato il più grande fotografo del tempo che è riuscito a mostrare la vera realtà della condizione degli americani durante la Grande Depressione.
La mia riflessione è che Evans abbia utilizzato le fotocamere come un’estensione del suo occhio critico della vita quotidiana di una popolazione in forte sofferenza, mostrando anche i contrasti sociali.

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Sensibilità ISO

Sensibilità ISO

In questo articolo vi parlerò della sensibilità ISO, di cosa significa e come utilizzarla.

Cosa avviene quando scattiamo

Facciamo un veloce riepilogo su cosa avviene nel momento in cui premiamo il pulsante di scatto. La luce entra nel obiettivo, passa attraverso il diaframma, arriva allo specchio (che ci permette di vedere nel mirino quello che stiamo inquadrando), al momento dello scatto lo specchio si alza e fa passare la luce fino ad arrivare al materiale fotosensibile.

Fotografia analogica

Perché ho detto materiale fotosensibile? Perché agli albori della fotografia c’erano le lastre, chimicamente trattate, poi sono arrivate le pellicole ed ora il sensore ma il percorso che fa la luce è sempre lo stesso. In analogico (con le pellicole) si parlava di sensibilità ASA cioè in base alle condizioni di luce si sceglieva la sensibilità. Cerchiamo di semplificare il concetto di “sensibilità alla luce”. Potremo dire che le pellicole sono formate da grani d’argento. Se questi grani sono piccoli (ad es. ASA 100) la pellicola sarà poco sensibile e quindi potrà essere utilizzata con una luce diurna ed adeguata. Al contrario se ci troviamo con una pellicola con grani d’argento grandi (es. ASA 400) essa sarà più sensibile alla luce e quindi si potrà scattare in condizioni di scarsa luminosità.

Cosa succede in fotografia quando scegliamo un valore diverso

Ok fin qui tutto chiaro, almeno spero :), ma cosa succede oltre a questo scegliendo una sensibilità diversa? Con un numero di ASA più basso avremo una qualità della foto maggiore, quando utilizziamo una pellicola più sensibile troveremo una grana all’interno dell’immagine (dovuta alle maggiori dimensioni dei grani d’argento). Bene ho fatto questa premessa analogica così da poter spiegare più facilmente il concetto sul sensore digitale.

Fotografia digitale

Il sensore è un chip informatico fotosensibile che permette di catturare la luce e tramite un sistema di conversione analogico-digitale (dalla luce analogica in linguaggio informatico) di creare un file dell’immagine scattata, o meglio ancora, catturata. Essendo un chip per funzionare ha bisogno di essere elettrificato. Sempre semplificando tantissimo, potremo dire che se abbiamo più corrente elettrica più il sensore tenderà a riscaldarsi e a creare artefatti nell’immagine finale. Probabilmente leggendo una cosa del genere gli ingegneri che hanno sviluppato i sensori staranno pensando “Ma che cavolo sta dicendo”, 🙂 lo ripeto: i concetti, da me espressi, sono semplicemente una voglia di rendere comprensibile a tutti dei concetti che possono sembrare ostici.

Tornando alla nostra sensibilità ISO vi faccio vedere alcune immagini che vi fanno capire questi concetti più di mille parole. Quindi ricapitolando: con valori di ISO bassi (100 o anche meno su alcune fotocamere) avremo una qualità fotografica buona, alzando il valore della sensibilità ISO (oltre i 400 – 800) avremo una fotografia con la presenza di rumore digitale. Nell’era analogica la grana presente nelle immagini, scattate con pellicole molto sensibili, era un effetto anche artistico e ricercato. Mentre nel digitale aumentando il valore della sensibilità ISO ci troveremo davanti a macchie, sulla fotografia, irregolari e anche una colorazione della scena differente. Fotocamere di alta qualità (e considerevole costo) hanno un sensore di qualità superiore e possono scattare anche con una sensibilità ISO molto elevata ma avere poco rumore. Io cerco di non andare oltre gli 800 ISO e con macchine datate non mi spingo oltre i 400 ISO.

Concludendo possiamo dire che più scattiamo con valori di sensibilità ISO bassi è la fotografia avrà più qualità e se abbiamo bisogno di alzare il valore della sensibilità ISO non dovremo andare oltre gli 800 a meno che non abbiamo una fotocamere molto performante.

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