Nell’era della fotografia digitale abbiamo a che fare con file informatici che sono composti da informazioni numeriche. Scattando in analogico non abbiamo altro che un materiale fotosensibile (pellicola) che si impressiona e ci permette di avere una immagine registrata che poi, successivamente, dovrà essere sviluppata. Nella fotografia digitale invece della pellicola avremo un chip informatico fotosensibile, il sensore, che, attraverso un convertitore, trasformerà un segnale analogico (la luce) in digitale, cioè in bit (una serie di 0 e 1), così da creare un file digitale. Quindi parlando di fotografia digitale non possiamo fare altro che pensare a file digitali. Il più comune, e universalmente conosciuto, è il file JPG e poi abbiamo il file RAW e tanti altri formati (in questo articolo volutamente non tratterò gli altri file immagini per cercare di essere sempre il più semplice possibile).
Il file RAW (dall’inglese grezzo) va al di la di molte elaborazioni che applica la fotocamera e registra quello che realmente ha “visto” il sensore. Il file RAW ha, registrato al suo interno, i dati “grezzi” dei pixel raccolti e dei metadati come ad esempio le informazioni sul tipo di fotocamera e obiettivo utilizzati. Quindi questo tipo di file dovrà essere, necessariamente, trattato con software in post produzione per poi creare un file utilizzabile da tutti i sistemi informatici, come ad esempio il file JPG. I file RAW sono nominati a seconda della casa produttrice delle fotocamere. La Nikon chiama i suoi file NEF (quindi avranno una estensione .NEF), la Canon li chiama CR2 (quindi estensione .CR2), al di la del nome restano file grezzi che poi dovranno essere sviluppati.
Il JPG è un file compresso dalla fotocamera e quindi ha anche una minore dimensione rispetto ad un RAW. Oltre alla dimensione la differenza tra un file RAW ed uno JPG è anche lo spazio colore a cui vengono creati. Il JPG di solito è creato ad 8 bit mentre il RAW può essere creato tra i 12 e i 24 bit (dipende dal sensore e dal processore di immagini presente all’interno della fotocamera).
Scattare in formato RAW significa dover aprire tutte le immagini con programmi di post produzione per sviluppare un file leggibile (ad esempio JPG). Bisogna però dire che utilizzando l’opzione della fotocamera di scattare solo in formato RAW avremo un grande consumo di dati sulla scheda di memoria perché un file RAW è abbastanza grande. Scattare, invece, con formato JPG significa avere un minore spazio occupato in memoria e un file subito utilizzabile da tutti i sistemi informatici. Se abbiamo bisogno di lavorare con velocità senza dare troppa importanza alla qualità possiamo utilizzare tranquillamente il file JPG. Ma se abbiamo bisogno di un lavoro di qualità e abbiamo tempo di lavorare, successivamente, al computer allora è sicuramente consigliabile utilizzare file RAW.
Quasi tutte le fotocamere hanno l’opzione di salvataggio RAW+JPG in questo modo scattando una fotografia si avranno due file, uno .JPG e uno .RAW: ad esempio una foto che sia chiama DSC_001 sarà salvata in questo modo, DSC_001.JPG e DSC_001.RAW. Questo tipo di salvataggio porterà un maggiore consumo di spazio sulla scheda e quindi un minor numero di fotografie che possono essere
NikonCanonSony
Dopo aver analizzato, cercando sempre la semplicità, la domanda che nasce spontanea è: “Quale file mi conviene utilizzare quando fotografo?”. Dipende da cosa si deve fare con la fotografia scattata.
Se si è in vacanza con la famiglia e non si hanno esigenze, ne voglia, di lavorare al computer, va benissimo scattare solo in JPG.
Se bisogna avere la massima qualità e la possibilità di effettuare delle modifiche successive allo scatto, allora la scelta migliore è scattare in RAW.
Di solito io consiglio di scattare sia in RAW che JPG (una unica fotografia con due differente file) quando queste fotografie potrebbero essere utilizzate anche in seguito e potrebbero avere bisogno di una modifica e una post produzione. Un esempio: scatto fotografie ad un processo di lavorazione che di solito uso nel mio lavoro ma che normalmente non ho bisogno di mostrare, ma poi successivamente mi chiedono di fare un corso su questo tipo di lavorazione. Avrò bisogno di immagini da mostrare e se queste sono di alta qualità è ancora meglio, quindi scattare in RAW+JPG potrebbe essere una giusta scelta. Un’altra valutazione sullo scattare in formato RAW è che la tecnologia è sempre in continuo miglioramento quindi potremo utilizzare software più potenti degli attuali, successivamente, avendo a che fare con file grezzi potremo avere un lavoro sempre della massima qualità.
Concludo che qualunque sia il formato scelto l’importante è fotografare bene o comunque secondo la propria vena artistica.
Il tempo di scatto in fotografia è una informazione fondamentale che bisogna conoscere bene. Iniziamo con il pensare a cosa si riferisce questo tempo. Dentro una fotocamera ci sono due dispositivi che permettono di controllare l’esposizione dell’immagine. (Ho scritto un articolo sul percorso della luce in una fotocamera reflex a questo articolo).
Quando il raggio luminoso entra nell’obiettivo il primo elemento che trova è il diaframma poi entra nella fotocamera e trova uno specchio e successivamente l’otturatore (con le sue tendine) che si apre e si chiude permettendo l’esposizione del sensore (o del materiale fotosensibile).Voglio dare una informazione sui movimenti che fanno sia lo specchio che l’otturatore: lo specchio fa un movimento verticale mentre l’otturatore lo fa in orizzontale.
Quando sentiamo parlare di tempo di scatto per comodità, e per semplicità, sentiamo spesso il riferimento alla apertura e chiusura dello specchio ma in realtà, questo tempo, si riferisce all’otturatore.
Il tempo si scatto è espresso in frazioni di secondo (da 30 secondi a 1/8000). Tutte le fotocamere reflex, Mirrorless e le più evolute hanno la possibilità di scegliere programmi di scatto manuali dove bisogna scegliere il tempo di esposizione giusto. Mentre scegliendo programmi di scatto automatici questo tempo è scelto dalla macchina.
Si può anche scegliere la “posa B”: l’operatore sceglie un tempo superiore ai 30 secondi scattando una prima volta per aprire l’otturatore ed una seconda volta per chiuderlo.
L’otturatore è formato da due tendine che si trascinano come, abbiamo detto, su un percorso orizzontale. Quando si usa il flash che è sincronizzato con la fotocamera viene da essa riconosciuto e quindi non permette uno scatto con tempi più veloci di 1/200 – 250 di secondo, questo tempo si chiama Sincro Flash. Utilizzando flash non sincronizzati (di solito datati o di marche non originali) e si utilizza un tempo di scatto più veloce del valore di Sincro Flash la foto risulterà esposta solo in parte. Guardando la foto di seguito si può notare come a foto sia esposta a metà perché il tempo era troppo veloce per fare in modo che la tendina si fosse aperta completamente prima dell’arrivo del raggio luminoso.
Sulla esposizione ho scritto un articolo dettagliato che potrete trovare a questo link.
Sul tempo di scatto, quindi sulla esposizione, dobbiamo necessariamente parlare di due termini: sovraesposizione e sottoesposizione. La sovraesposizione avviene quando si è utilizzato un tempo troppo lungo quindi troveremo una fotografia molto “chiara” mentre la sottoesposizione è il contrario.
Questo tempo non lo decidiamo ad occhio, ma uno sensore fotosensibile, all’intento della fotocamera, che si chiama esposimetro. L’esposimetro è un chip fotosensibile che attraverso un modo di lettura (che possiamo scegliere) legge la luce presente nella scena conoscendo l’apertura del diaframma e la sensibilità ISO ci dice che tempo di scatto bisognerà utilizzare per avere una corretta esposizione, Sull’esposimetro ho parlato ampiamente in questo articolo.
Il tempo di scatto permette, inoltre, di congelare il movimento dei soggetti (tempo veloce) oppure farlo vedere (tempo lento).
Tutte le fotocamere hanno diversi programmi di scatto, scegliendo quelli automatici il tempo viene scelto dalla fotocamera.
La dimensione dei sensori fotografici varia secondo l’utilizzo e il costo. Ho descritto in un altro articolo il funzionamento del sensore fotografico, che potete trovare a questo link.
Ora, invece, mi dedicherò ad affrontare il concetto della dimensione dei diversi tipi di sensori presenti sul mercato.
Quando si parla di sensore si pensa subito alla qualità di immagine che si può ottenere. Bisogna però considerare che a parità di MegaPixel (milioni di fotodiodi presenti nel sensore), in un sensore di dimensioni maggiori questi saranno più grandi e meglio organizzati e, di conseguenza, si avrà una qualità dell’immagine superiore. Questo permette di avere non solo una maggiore nitidezza ma anche un miglior comportamento con sensibilità ISO più alte abbassando, quindi, il rumore digitale.
Chi è “diversamente giovane” ricorderà le vecchie pellicole che avevano diverse dimensioni. Si usava il formato standard da 35mm (24x36mm), che era il più utilizzato. Poi c’era il medio formato, con pellicole che avevano una dimensione di 6×6 cm, 6×7 cm., o addirittura il grande formato con pellicole di dimensioni 10x12cm, 12x17cm., ecc. La prima motivazione nella scelta tra un formato piuttosto che un altro era il prezzo, in quanto una fotocamera che utilizzava un medio formato costava molto rispetto ad una 35mm e quindi era appannaggio di applicazioni professionali. Ma per ora tralasciamo le caratteristiche delle pellicole e la fotografia analogica, a cui ho solo fatto riferimento per avere un termine di paragone da cui iniziare per trattare questo argomento.
Paradossalmente si parla dei sensori con grandezza Full Frame (pieno formato), che hanno una dimensione di 35mm (24×36), che nelle fotocamere con pellicola era definito “piccolo formato”. La dimensione del sensore è diventata però determinante nella scelta della fotocamera da acquistare per le nostre esigenze.
Inoltre la dimensione del sensore implica una differenza di gestione della profondità di campo, della sensibilità ISO e della qualità di immagine. Per quanto riguarda la profondità di campo possiamo evidenziare che, a parità di diaframma utilizzato, con un sensore di maggiori dimensioni avremo una minore profondità di campo (quindi più sfuocato). Ciò significa che la profondità di campo è inversamente proporzionale alla dimensione del sensore. Ho già trattato, poi, in un precedente articolo (che potrete trovare a questo link) il fenomeno della diffrazione, che è un problema legato all’ottica e che provoca un decadimento della qualità della scena fotografata in conseguenza del percorso della luce che attraversa il diaframma e varia con il variare del valore di apertura dello stesso. Va però considerato che la diffrazione è comunque presente, sia che utilizziamo un diaframma molto chiuso piuttosto che molto aperto e determinerà un deterioramento di immagine, per cui per ottenere la qualità massima dovremo utilizzare una apertura di diaframma media, e che un diaframma medio, nelle fotocamere con sensore Full Frame, è tra f8 e f11, quindi per avere la massima qualità dovremo utilizzare una tra queste aperture: f8 – f9 o f11.
Ma non dobbiamo tralasciare la profondità di campo, che è la parte di scena che risulta a fuoco tra il soggetto principale e gli altri elementi presenti, e che anch’essa varia con il variare dell’apertura del diaframma. Infatti più il diaframma sarà aperto (f2.8 ad esempio) più il soggetto principale risulterà a fuoco e i soggetti posti a distanze diverse risulteranno sfuocati. Quindi, se siamo abbastanza vicini, con un diaframma medio ci troveremo uno sfuocato dietro il soggetto principale (come nell’immagine seguente).
Per quanto riguarda poi la dimensione del sensore, anche questa determina diversi effetti. Con un sensore Full Frame, infatti, avremo il problema della diffrazione oltre l’apertura di f11, mentre con un sensore di formato più piccolo (ad esempio APS-C) lo troveremo già dopo f8 e con un sensore ancora più piccolo (ad esempio un micro 4/3) lo troveremo addirittura già dopo f5.6. Faccio un esempio pratico: foto al volto volendo avere la massima qualità di immagine e con uno sfuocato “artistico” alle spalle del soggetto. Utilizzando con un sensore Full Frame un valore f11, con un sensore APS-C invece un f8 o f9 e con una 4/3 (o micro 4/3) un f5.6 il risultato sarà lo stesso in termini di profondità di campo (sfuocato dietro il soggetto) e avremo la massima qualità di immagine possibile per quella dimensione di sensore.
Per quanto riguarda la sensibilità ISO dobbiamo nuovamente far riferimento alle pellicole. Semplificando molto il concetto possiamo dire che le pellicole fotografiche sono fatte da grani d’argento e che più sono piccoli più bassa sarà la loro sensibilità alla luce, per cui non si potranno utilizzare in condizioni di luce scarsa. Infatti, ad esempio, una pellicola ASA 100 va bene con una buona illuminazione ma non per foto con poca luce. Quindi bisognerebbe utilizzare una pellicola con ASA (ad esempio) 400 che avrà i grani più grandi e quindi più sensibilità alla luce. Questo però comporta un effetto granuloso nella fotografia, che in analogico era spesso ricercato perché ritenuto artistico.
Brassai – si può chiaramente vedere cosa si intende per pellicola molto sensibile e l’effetto grana
Claudio Iacono – Foto effettuate con due tipi di sensibilità diverse si può notare il rumore diogitale di quella a destra
Tutto questo ragionamento lo possiamo riportare sulla grandezza dei sensori. Quindi se abbiamo un sensore di più grande dimensione i Pixel possono essere anche più grandi e quindi il comportamento alle alte sensibilità donerà un minore “rumore digitale” (che è un problema analogo alla grana in analogico).
Spero che questo articolo abbia fatto un po’ di chiarezza sulla dimensione dei sensori. Ma, poiché tutto il sito è sviluppato Work in Progress, sicuramente ci saranno ulteriori aggiornamenti.
In questo articolo vi parlo del fattore di Crop. Esistono due tipi di sensori quelli Full Frame (pieno formato) che misurano 24x36mm e quelli APS-C che sono un po più piccoli e le dimensioni dipendono dalle marche.
Di solito i sensoriAPS-C della Nikon misurano 23,6 x 15,7mm mentre quelli dellaCanon misurano 22,2 x 14,8mm.
Se montiamo un obiettivo da 50mm su una fotocamera Full Frame avremo un angolo di campo di 47°. Se invece lo stesso obiettivo lo montiamo su una fotocamera con sensore APS-C dovremo moltiplicare alla lunghezza focale un valore chiamato “fattore di Crop” (dichiarato dalla casa madre ed indicato nelle caratteristiche delle fotocamere).
Quindi, facendo un esempio con Nikon, se montassimo un obiettivo 50mm su una APS-C dovremo moltiplicare 1,5 (fattore di crop della Nikon) a 50mm quindi diventerà 75mm e l’angolo di campo invece di 47° diventerà intorno ai 30°. Per la Canon di solito il fattore di crop è 1,6. Nella pratica avremo semplicemente un avvicinamento al soggetto.
Questo concetto è particolarmente importante nella scelta degli obiettivi perché se vogliamo scattare panorami dobbiamo sapere che se acquistiamo un 18mm e ho una APS-C sarà 27mm e quindi non un effettivo grandangolare.
er esempio se vogliamo fotografare la luna ci aiuta molto questo concetto in quanto se montiamo un obiettivo che ha una lunghezza di 200mm, per il sensoreFull Frame, con il fattore di crop arriviamo ad avere una lunghezza focale di 300mm. Inoltre questo aspetto ci permette anche di risparmiare sull’acquisto della fotocamera in quanto quelle con sensoreAPS-C sono più economiche delle Full Frame.
Ci sono diversi campi, in fotografia, in cui questo può essere d’aiuto come ad esempio: la macro fotografia e la fotografia naturalistica.
l sensore fotografico è un chip informatico, lo dico molto semplicemente, che permette di convertire un segnale analogico, la luce, in un segnale digitale.
In questo articolo cercherò di trattare l’argomento del sensore fotografico con la mia consueta semplicità cercando di non entrare (volutamente) in tecnicismi troppo complicati e non necessari.
Per catturare un’immagini all’interno del sensore ci sono milioni di fotositi che, disposti in una griglia bidimensionale, trasformano i fotoni in elettroni.
I fotoni sono dei pacchetti di energia che compongono la luce
Da quando è nata la fotografia digitale si sono prodotti due categorie di sensori, CCD e CMOS. I sensori CCD sono stati utilizzati molto spesso all’inizio dell’era della fotografia digitale mentre ora sono ad appannaggio delle apparecchiature di campi specifici come ad esempio l’astronomia. La differenza tra i due è che i CMOS convertono le cariche elettriche di ogni elemento in modo indipendente. Il vantaggio principale del sensore CMOS è il minor consumo energetico e il minor costo di produzione. Ci sono anche i sensori di tipo Foveon (di cui ho parlato in questo articolo), sempre CMOS, che hanno una “griglia” con tre livelli sovrapposti per catturare la luce rossa, verde e blu (RGB) di ogni singolo pixel. La prima azienda produttrice di fotocamere a introdurre i sensori CMOS è stata la Canon utilizzandoli nelle sue DSLR (Digital Single Lens Reflex – fotocamere digitali reflex a singola lente). Il primo modello fu la Canon EOS D30 prodotta nel 2000.
Canon EOS D30
Matrice a griglia
Dovete sapere che un sensore fotografico vede una scena monocromatica, quindi in bianco e nero, e allora come è possibile vedere l’immagine catturata a colori? Beh questo avviene mediante l’utilizzo (all’interno del sensore) di una microscopica griglia a matrice di filtri colorati posizionata direttamente sopra ai fotodiodi del sensore. In questo modo ogni singolo pixel viene ricoperto di un solo colore, rosso, verde o blu (RGB). Questo filtro colorato, raggiunto dalla luce, farà passare solo la lunghezza d’onda specifica del colore cui è destinato. Potremo semplificare ancora questa spiegazione dicendo che l’immagine prodotta da questo tipo di filtro assomiglia a un mosaico di punti rossi, verde e blu. Questi tipi di filtri a matrice sono adatti alle applicazioni fotografiche perché riproducono fedelmente i colori e riescono a mantenere un accettabile livello quando si utilizzano valori di sensibilità ISO elevati. La più utilizzata griglia è quella di “Bayer” che è stata proposta per la prima volta nel 1976 dall’ingegnere Bayer della Eastman Kodak. Questa griglia ha al suo interno una configurazione di filtri verdi doppia rispetto a quelli rossi e blu, questo perché l’occhio umano ha una maggiore sensibilità al colore verde.
Matrice di Bayer
Torniamo al sensore Tornando alla semplicità nella spiegazione… il sensore fotografico è un fotodiodo avanzato. Un fotodiodo è un dispositivo sensibile alla luce che quando intercetta una determinata lunghezza d’onda genera una carica elettrica. Quindi il sensore non è altro che chip di silicio fotosensibile che attraverso dei collegamenti elettrici comunica con la fotocamera.
Aliasing e filtri Si sente spesso parlare di filtro “passa-basso” o di aliasing. Intanto vi spiego cosa si intende per alising. Quando una scena catturata digitalmente mostra dei motivi o dei colori non presenti nella scena originale si parla gericamente di antialising. Questo problema nei sensori con griglie di Bayer possono essere parzialmente risolti tramite l’utilizzo di software integrati nella fotocamera che cercano di aumentare la nitidezza della immagine finale. Le aziende cercando di limitare questa problematica mettono davanti al sensore fotografico un filtro chiamato anti-aliasing o semplicemente passa-basso. Purtroppo l’utilizzo di questi filtri producono, all’interno dell’immagine, una leggera sfocatura e quindi spesso si sente parlare, nelle fotocamere anche professionali, che non hanno il filtro “passa-basso” (es. Nikon D7200). Sicuramente il non utilizzo di questi filtri produce immagini più nitide ma è possibile vedere, in alcuni casi, delle aberrazioni cromatiche evidenti. Anche la Sigma SD-9 non ha il filtro passa-basso ed è equipaggiata di un sensore CMOS Foveon X3.
Quando stiamo decidendo l’acquisto di una fotocamera la prima cosa che ci viene in mente è: “voglio una fotocamera con tanti MegaPixel perché avrò sicuramente delle immagini di alto livello”. Beh su questo aspetto bisogna fare una veloce chiacchierata per capire perché non è sempre vero e soprattutto che significa la quantità di MegaPixel presenti all’interno del sensore.
Intanto dobbiamo ricordare che un sensore, ad esempio con 10 MegaPixel, genera una immagine di 3872×2592 che se la rapportiamo ad un classico Full HD (1080p) con 1920×1080 ci accorgiamo di quanto la dimensione dell’immagine è molto più grande di un comune Full HD. Ma analizziamo anche le più recenti tecnologie come ad esempio la 4K che ha una dimensione di 4096×2160 quindi 10 MegaPixel sono ancora più che accettabili. Insomma quello che voglio dire è che la maggiore quantità di Pixel ci permette una maggiore dimensione di immagine tanto da poter “croppare” (tagliare e ingrandire) senza perdere troppo in qualità, e se vogliamo stampare potremo farlo anche su supporti molto grandi. Ad esempio con una immagine da 10 MegaPixel potremo arrivare a stampare su un foglio di 96cm x 63cm a 100dpi.
Parlando di quantità di MegaPixel presenti nel sensore possiamo fare un veloce calcolo: un file da 4096×2160 è generato da una fotocamera che ha 8,8 MegaPixel (4096×2160 = 8.847,360 Pixels). Quindi si calcolano il numero di Pixels presenti In orizzontale e in verticale e si moltiplicano. Però su questo bisogna aprire una parentesi. Quando si parla di risoluzione dobbiamo dividerla in due tipi: risoluzione effettiva e non effettiva. Questo è dovuto al fatto che non tutti i pixel presenti all’interno del sensore servono a creare l’immagine, infatti si parla di “area di immagine” che di solito è formata da un anello di pixel. I pixel che cadono all’interno dell’anello vengono processati e usati per formare l’immagine, ma non ne fanno direttamente parte. Alcuni pixel che cadono al di la dell’anello sono otticamente neri e vengono usati solo per stabilire il livello di rumore digitale. Quindi il numero effettivo di pixel che vanno a comporre l’immagine non è quello totale ma quello presente all’interno dell’area dell’immagine e dell’anello. Se guardiamo le caratteristiche delle fotocamere, soprattutto quelle avanzate e nella fascia di mercato professionale, possiamo leggere due numeri di versi di pixel: quelli “efficaci” e quelli “totali”. Il numero dei “pixel efficaci” corrisponde al numero di pixel usati per fornire per formare l’immagine e include anche l’anello dei pixel.
Articolo (Fotografia in laboratorio odontotecnico) pubblicato sulla rivista: Antlo – Il Nuovo Laboratorio Odontotecnico del 1/2018
Premessa– Fotografia in laboratorio odontotecnico
Al giorno d’oggi è sempre più importante conoscere e usare correttamente la tecnologia soprattutto in ambito scientifico, per questo è necessario dare all’odontotecnico la possibilità di capire e usare al meglio la tecnica fotografica. In questo articolo si vuole fornire informazioni sulla fotografia e sulla tecnica da usare per creare degli scatti sia tecnicamente perfetti che esteticamente efficaci.
Nella pratica quotidiana del laboratorio odontotecnico è entrato ormai a pieno titolo l’utilizzo della fotografia quale utile strumento di supporto e verifica delle varie fasi lavorative. E’ facilmente intuibile, infatti, che avere a disposizione un materiale fotografico di alto livello consente di ottenere un elevato standard qualitativo di lavoro, con evidenti favorevoli riverberi, anche pubblicitari, della propria professionalità. Entrando maggiormente nello specifico, appare immediatamente evidente la possibilità di comunicazione continua con lo studio odontoiatrico offerta dalla rete Internet che, con l’utilizzo di specifici programmi come ad esempio Dropbox, Wetransfer e tutti i sistemi di trasferimenti dati presenti, consente il facile interscambio di dati in tempo reale, onde ottenere una consistente contrazione dei tempi di lavorazione. Non va certamente sottovalutato l’aspetto promozionale che può essere sviluppato attraverso i moderni Social Network come Facebook i quali hanno raggiunto un notevolissimo grado di sviluppo e pertanto possono essere utilizzati efficacemente e soprattutto gratuitamente.
Introduzione– Fotografia in laboratorio odontotecnico
La fotografia mette a disposizione del professionista del settore un mezzo di comunicazione molto efficiente ed efficace in quanto offre la possibilità di seguire visivamente e tempestivamente l’evolversi delle varie fasi dei lavori da eseguire, per cui si intuisce subito la necessità di scattare delle fotografie corrette e ben eseguite anche se ci si volesse soffermare soltanto sull’aspetto puramente estetico. Di fotografia odontotecnica usata a scopo documentativo si è parlato sempre molto poco e le pubblicazioni su tale argomento non sono molte, tanto da generare, in questo ambito, molta disinformazione e spesso anche confusione. Mentre per la fotografia odontoiatrica si sono creati protocolli comuni già ampiamente utilizzati in ambito clinico, per quella odontotecnica finora si è proceduto in modo autonomo su specifiche iniziative dei singoli laboratori.
Protocolli– Fotografia in laboratorio odontotecnico A mio avviso in ogni ambito lavorativo che coinvolge più soggetti professionali è molto utile potersi affidare a regole e strumenti comuni sia per avere una razionalizzazione del proprio lavoro che per tenere tutto il processo produttivo sotto controllo; quindi appare ancora più necessaria la possibilità di avere a disposizione dei protocolli comuni riconosciuti ed utilizzati da tutti. Fatta questa doverosa premessa possiamo già indicare le linee di base per sviluppare un protocollo destinato specificatamente alla fotografia odontotecnica, tenendo presenti le diverse esigenze che si presentano durante le varie fasi della lavorazione. Sorge subito il primo problema, dovuto al fatto che non tutti gli odontotecnici usano le medesime tecniche lavorative e non è possibile quindi creare un protocollo “uguale” per tutti, ma ciò non toglie che si possano prevedere e quindi standardizzare in più protocolli settoriali gli scatti indispensabili a seconda delle tecniche utilizzate nonché delle diverse tipologie di prodotto (ad esempio: protesi mobile piuttosto che fissa), tenendo però sempre presente che tutti gli scatti fotografici dovranno essere comunque ripetibili e sovrapponibili. E’ opportuno quindi definire bene questi due aspetti, che sono spesso solo enunciati genericamente, precisando che per ripetibili si intendono foto che avranno la medesima luce ed intensità, mentre per sovrapponibili che possono essere sovrapposte con quelle che verranno scattate durante le successive fasi della lavorazione (Figg. 1a e 1b): ad esempio in protesi implantare: dal modello con analoghi alla barra avvitata sugli stessi.
Fig. 1a: modello in gesso con analoghiOdt. Ciro SimonettiFig. 1b: modello in gesso con barra avvitata sugli analoghiOdt. Ciro Simonetti
Per quanto detto, il protocollo dovrà prevedere delle foto iniziali già all’arrivo delle impronte e poi via via tutte le successive scattate durante le fasi intermedie e fino alla fine della lavorazione. Considerato che non è possibile utilizzare un protocollo unico per tutti gli odontotecnici, si possono però certamente indicare delle linee guida che permettano di adottare un uso della fotografia omogeneo e duttile, modificabile in base alle diverse fasi delle lavorazioni. Gli scatti da effettuare, come già detto, devono evidenziare adeguatamente ogni fase, iniziando da quelli al volto del paziente effettuati dal clinico; a tal proposito è opportuno sottolineare quanto sia importante che anche il clinico abbia una conoscenza della fotografia atta a creare un adeguato supporto al lavoro fotografico onde ottenere del materiale correttamente e scientificamente elaborato. Certamente va anche considerato che nella pratica quotidiana un odontotecnico non abituato a fotografare i propri lavori abbia una certa riluttanza a servirsi di questo strumento, ma ricorrendo ad un box fotografico di facile realizzazione creato ad hoc e cercando di impostare il proprio laboratorio anche in funzione dell’utilizzo della fotografia, tale riluttanza potrà essere facilmente superata e così anche questo aspetto farà parte della routine quotidiana, scoprendo dopo i primi scatti un nuovo mondo che consentirà di cogliere sfaccettature del proprio lavoro quasi mai notate in precedenza. Visto che l’odontotecnico crea i propri manufatti partendo da un elemento soggettivo (il proprio estro), avere a disposizione uno strumento che possa far esaminare la lavorazione in modo dettagliato e soprattutto immediatamente, può consentire di correggere subito gli eventuali errori di lavorazione. Prima di addentrarci nella parte più squisitamente tecnica della fotografia dentale una premessa è d’obbligo: per fotografia si intende “leggere la luce”; però aggiungendo a questa prima definizione “sapendola gestire a proprio modo”.
Entriamo nel vivodella fotografia in laboratorio odontotecnico Detto questo, si intuisce già che il problema principale nella fotografia è quello di saper leggere e gestire la luce, che sia essa naturale o artificiale, cercando di avere una illuminazione corretta per ogni fase lavorativa, quindi creando le cosiddette foto ripetibili, pur facendone un uso creativo come quando, ad esempio, si vuole enfatizzare un lavoro particolarmente ben riuscito. La fotografia digitale rispetto a quella analogica, paradossalmente ha creato anche molti problemi e per certi aspetti una maggiore confusione, in quanto nella fotografia analogica dentale, anche se poco praticata, esistevano pochi strumenti che potevano essere utilizzati ed erano universalmente riconosciuti per il loro uso (Figg. 2a e 2b).
Fig. 2a: Yashica Dental Eye II (1985)Fig. 2b: Canon F1 con Flash Canon Macrolite ML-1
Ora con il digitale ci muoviamo in un mondo sempre più vasto, in cui però le case costruttrici di fotocamere ed accessori, a mio avviso, non hanno adeguatamente supportato il settore dentale. La “corsa all’aumento dei megapixel” che ha impegnato i principali produttori, ha creato un immenso parco macchine dove con frequenza annuale se non addirittura semestrale, viene proposta una nuova macchina con megapixel in numero sempre maggiore, dando a volte l’illusione che solo questo dato possa determinare il valore del fotografo. A tal proposito voglio precisare che la fotografia ha dei concetti fondamentali che vanno oltre la marca di fotocamera usata, quindi ne consegue che qualunque fotocamera si utilizzi e qualunque sia la sua marca l’importante è avere ben in mente i fondamenti della fotografia. Non tutti gli odontotecnici e gli odontoiatri sono relatori in corsi o conferenze, quindi non tutti avranno necessità di servirsi di foto da utilizzare per presentazioni didattiche, ma ciò non toglie che si possono creare slide e presentazioni che potranno dare maggiore risalto all’aspetto pubblicitario del proprio lavoro. Ma facciamo chiarezza su questo punto: presentare un caso su un monitor di computer o anche su una TV di 40 – 50” ha una valenza, mentre farlo su uno schermo gigante utilizzando ad esempio un proiettore in una sala conferenze ne ha un’altra. Quindi se si devono documentare i propri casi per archivio ed eventualmente per pubblicità su social network potrebbe bastare un’ attrezzatura non necessariamente di ultima generazione, mentre invece se bisogna presentare la documentazione fotografica in corsi di formazione o conferenze è sicuramente più vantaggioso dotarsi di mezzi di ultima generazione, in modo da poter ottimizzare la qualità degli scatti.
Profondità di camponella fotografia in laboratorio odontotecnico In questa sede non mi dilungherò volutamente su tecnicismi più o meno utili in quanto sono tanti e troppi gli aspetti da valutare, ma c’è un dato tecnico che non può essere sottaciuto, tanto più che in ambito dentale, cioè la profondità di campo che, negli scatti da protocollo, deve essere sempre la massima possibile. Per profondità di campo si intende “la zona in cui gli oggetti nell’immagine appaiono ancora nitidi e sufficientemente focalizzati”, (fig. 3) quindi in presenza di bassa profondità di campo avremo il cosiddetto “sfocamento dell’immagine”, mentre al contrario (con maggiore profondità di campo) il soggetto fotografato sarà totalmente a fuoco.
Fig. 3: Esempio di Profondità di campo
Questo aspetto è talmente importante nella fotografia dentale, sia essa odontoiatrica che odontotecnica, che si sente spesso parlare di “scattare in modalità a priorità di profondità di campo”. Per protocollo o comunque per avere una corretta documentazione scientifica c’è bisogno di avere tutto il soggetto a fuoco, quindi è necessaria una profondità di campo elevata. Essa è influenzata da tre fattori:
1. Apertura di diaframma: più il diaframma è chiuso maggiore sarà la profondità di campo; (figg. 5a – 5b – 5c – 5d – 5e – 5f).
Fig. 5a: Diaframma f2.8 Fig. 5b: Diaframma f9 Figura 5c: Diaframma f32Fig. 5d: Diaframma f2.8 Odt. Luigi CiccarelliFig. 5d: Diaframma f9 Odt. Luigi CiccarelliFig. 5d: Diaframma f32 Odt. Luigi Ciccarelli
2. Lunghezza focale dell’obiettivo: più la lunghezza focale è elevata minore sarà la profondità di campo (es. un obiettivo con lunghezza focale 50 mm avrà una maggiore profondità di campo rispetto ad uno con lunghezza focale 105 mm) (Fig. 6)
Fig. 6: obiettivo 50mm (a sinistra) e obiettivo 105mm macro
3. Distanza dal soggetto: più ci allontaniamo dal soggetto maggiore sarà la profondità di campo(Fig. 7)
Fig. 7: Immagine di esempio del cambio di profondità di campo in base alla distanza dal soggetto
Tutto questo fa capire che cercare di trovare un giusto compromesso tra i lati negativi che influenzano la profondità di campo, nell’ambito dentale, cioè la distanza ravvicinata del soggetto e l’obiettivo con una lunghezza focale elevata non è di facile gestione. In tutti i casi e in tutte le situazioni in cui ci troveremo ad affrontare questo problema potremo ricorrere all’aiuto che potrà fornirci l’illuminazione, la quale potrà, se usata in modo corretto, enfatizzare efficacemente i particolari dei soggetti fotografati. In questo caso posso asserire che si può fotografare un lavoro particolarmente ben fatto in modo negativo e quindi rovinarlo, ma al contrario è possibile fotografare in modo perfetto ed enfatico un lavoro mal riuscito e avere dei risultati ottimi. La fotografia in laboratorio ha un vantaggio: il soggetto inanimato che usando un box (anche artigianale) ben costruito potrà ricevere una luce omogenea e ben studiata (Figg. 8a e 8b).
Fig.8a: illustrazione di un box creato con un cubo di compensato e con uno sfondo bianco
Fig.8b: illustrazione di un box creato con un cartoncino Bristol bianco messo a cupola su un banco da lavoro
In questo caso, però, assume una notevole importanza l’uso e la gestione dell’illuminazione al suo interno. Potremo utilizzare luci di diverse caratteristiche: continue, flash, dirette o diffuse. Usando unaluce diffusa il soggetto verrà colpito da una luce molto omogenea e morbida e avrà un addolcimento della colorazione mentre fotografando con una luce diretta sul soggetto esso potrà avere un contrasto di colore maggiore. Non è possibile, secondo me, utilizzare una unica modalità di gestione della luce, ma sarà necessario utilizzare luci che possono variare la potenza e la posizione, per poi, attraverso varie prove, arrivare a previsualizzare la fotografia e la sua relativa luce ancor prima di scattarla. Nell’uso del box è poi importante anche lo sfondo da utilizzare, in quanto esso influenzerà non poco il risultato finale della foto. Uno sfondo bianco, nero o grigio potrebbe essere considerato neutro in quanto non crea sul soggetto fastidiosi riflessi di colore, ma il bianco potrebbe avere anche un altro compito molto importante: riflettere la luce creando l’effetto di una “scatola immersa nella luce”, detta comunemente Lightbox. Quando si fotografano particolari di metallo o soggetti molto riflettenti è il caso di usare uno sfondo bianco in quanto il soggetto fungerà da specchio e uno sfondo nero o di altro colore sarebbe visibile al suo interno. Scattare all’interno di un box, inoltre, è importante per ottenere una luce uniforme su tutto il soggetto, specialmente sui bordi e sui contorni, tanto da farlo apparire “staccato nettamente dallo sfondo” in modo da renderlo “scontornabile” dopo lo scatto. Scontornare significa eliminare lo sfondo dalla fotografia, e questa operazione risulterà tanto più semplice e veloce quanto più la foto sarà stata ben fatta e gestita, infatti utilizzando un software di fotoritocco si evidenzierà lo sfondo rendendolo di un colore unico (es. nero), poi si trasporterà il tutto su un programma di presentazioni come ad esempio Microsoft Office Power Point o Apple Keynote, che attraverso i comandi ‘Imposta Colore Trasparente’ per il primo e ‘Alfa’ per il secondo, renderà lo sfondo trasparente.
fig 9a: immagine importata in un programma di presentazioni senza scontornare – Odt. Ciro Simonettifig 9b: immagine importata in un programma di presentazioni usando il comando per scontornare – Odt. Ciro Simonetti
Certamente la fotografia in laboratorio per il neofita sarà complicata e comunque necessiterà di tempo prima che possa dare dei risultati accettabili, ma questo non dovrà scoraggiare più di tanto perché, richiamando una celebre frase di Thomas Edison che recita: “Non mi scoraggio perché ogni tentativo sbagliato è un altro passo avanti”, scattando con attenzione e cercando ad ogni scatto di trovare nuove idee per ottenere immagini sempre migliori, si potrà trasformare il timore iniziale nel piacere della scoperta di un mondo nuovo che potrà sicuramente riservare delle sorprese molto entusiasmanti.
Ringraziamenti: Si ringrazia il Dr. Alessio Casucci e l’Odt. Alessandro Ielasi per il loro continuo appoggio. L’Odt. Luigi Ciccarelli, l’Odt. Ciro Simonetti e la Merz Dental per avermi dato la possibilità di fotografare lavori e denti.
Per fotografare contro sole bisogna avere bene in testa la tecnica fotografica. Se vogliamo che il sole diventi come fosse una stella, con tutti i raggi che si estendono dal suo centro, bisognerà chiudere più possibile il diaframma.
Pensandoci è semplice la comprensione del concetto di fotografare contro sole. Quando una fonte di luce passa attraverso un piccolo foro, per arrivare al materiale fotosensibile avrà uno “sventagliamento” che porta al fenomeno del sole come una stella.
Vie del centro di Mantova Diaframma f32 – è possibile vedere l’effetto stella
Quindi chiudendo al massimo il diaframma, la luce deve entrare in un piccolo foro e “apririsi” per arrivare al sensore o al materiale fotosensibile.
Vie del centro di Mantova – Diaframma f9 – non è possibile vedere l’effetto stella
Certo questa è una grandissima semplificazione e ci sono tantissimi studi sulla luce in base a questo fenomeno, ma a me piace essere semplice. Questo è quello che bisogna sapere in base al diaframma.
Invece le altre impostazioni sono il tempo di scatto e la sensibilità ISO. La sensibilità ISO dovrà essere la minima disponibile sulla fotocamera (normalmente 100). Il tempo di scatto sarà molto veloce in quanto avremo molta luce nella scena. Ma attenzione a non esagerare perchè la foto potrebbe poi avere solo un puntino bianco (il sole) e sarà tutta nera.
In questo caso l’esposimetro ci dice che una foto correttamente esposta avrà bisogno di una velocità elevata di scatto, ma facendo così avremo l’effetto che vi ho detto prima, una foto nera con un punto bianco. Una buona idea è quella di utilizzare la lettura esposimetrica Spot e mettere il punto di messa a fuoco su una zona in ombra. Così l’l’esposimetro leggerà meno luce di quella presente. Ma in questo tipo di foto non c’è un modo giusto o sbagliato. Quindi quale è il trucco? Andare a “sensazione” (come si direbbe dalle mie parti)…cerco di spiegarmi meglio. Se inquadrando la scena l’esposimetro (con lettura Matrix) ci dice di dpver scattare con un tempo di 1/2000s, io scendo fino a 1/1000s così avrò una scena meno “nera”. Ho detto che si va “a sensazione” perchè non esiste una regola matematica esatta quindi bisogna fare diverse prove prima di arrivare al risultato desiderato.
Spero che questo vi abbia incurioisto e che anche voi potrete iniziare a sperimentare questo tipo di foto.
In questo articolo parliamo di come funziona una reflex.
Reflex in inglese significa riflesso. Immaginiamo (vedi immagine di seguito) il percorso che fa il raggio luminoso entrando nell’obiettivo. Il raggio luminoso entra nell’obiettivo, arriva ad uno specchio che lo porta verso l’alto capovolto, entrando in un pentaprisma (sistema di 5 prismi) che lo fa arrivare al mirino così da permetterci di vedere quello che stiamo inquadrando.
Nel momento in cui premiamo il pulsante di scatto lo specchio si alza e fa passare il raggio luminoso facendolo arrivare al materiale fotosensibile (pellicola o sensore) che lo scompone e registra l’immagine. Quindi il sistema Reflex ci permette di vedere quello che stiamo effettivamente inquadrando rispetto alle fotocamere “inquadra e scatta” che hanno il mirino non sullo stesso piano dell’obiettivo.
Fotocamera inquadra e scatta analogica
Questo semplificando è il modo di come funziona una reflex.
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La diffrazione è una problematica della fotografia conosciuta già dagli albori. Si riferisce al percorso della luce che entra all’interno dell’obiettivo che trova lungo il suo percorso il diaframma.
La diffrazione ha questa caratteristica: il raggio luminoso attraversa l’obiettivo e arrivando al materiale fotosensibile (pellicola o sensore) incontra sulla sua strada il diaframma che se è di diametro totalmente chiuso crea un effetto ventaglio o comunque di variazione della direzione dei raggi. Questo provoca una fotografia con una qualità bassa e per poter avere un’immagine con una massima qualità bisognerà utilizzare un’apertura del diaframma medio.
Tutti gli obiettivi hanno una piccola, media e grande apertura e tutti nella apertura media hanno i valori uguali cioè tra f8 e f11. Per poter avere il massimo della qualità di quell’obiettivo, quindi, è consigliabile utilizzare un diaframma medio e per comodità utilizziamo f9. Il problema di questa scelta della apertura è direttamente collegato alla profondità di campo (di cui ho approfonditamente parlato in questo articolo). Riepilogando sappiamo che con diaframma aperto si ha il soggetto principale a fuoco e il restante sfocato e il contrario con un diaframma chiuso.
Quindi sapendo che esiste la diffrazione bisogna avere le nozioni tecniche fondamentali per capire come e quando utilizzare un diaframma medio. Non è sempre necessario cercare la qualità massima della fotografia e quindi l’utilizzo e la comprensione della apertura del diaframma è di cruciale importanza.
Numerosi testi di fotografia hanno trattato questo argomento ma ne prendo uno come esempio (Il Manuale del Fotografo di John Hedgecoe – Arnoldo Mondadori Editore del 1978) che recita: “Direzione secondo cui le onde luminose sono costrette a deviare o subiscono un effetto di diffusione, per essere costrette ad attraversare una stretta fessura (diaframma) o per essere contigue ad una superficie opaca. La diffrazione diminuisce la qualità dell’immagine e si verifica quando l’obiettivo è regolato su un’apertura minima, ad esempio f/45. Le foto migliori si ottengono a metà strada, con la gamma di aperture alle quali si bilanciano le aberrazioni e non si è ancora presentata la diffrazione”.
Rispetto alla grandezza del sensore devo aprire una parentesi perchè l’utilizzo del diaframma, medio nelle fotocamere con sensore Full Frame, è tra f8 e f11, quindi per avere una massima qualità di immagine dobbiamo utilizzare una tra queste aperture (f8 – f9 – f11). Ma ricordiamo che la profondità di campo, che è quanto si vede a fuoco tra il soggetto principale e gli altri presenti nella scena, varia secondo l’apertura del diaframma. Più è aperto (f2.8 ad esempio) più il soggetto principale risulterà a fuoco e i soggetti posti a distanze diverse risulteranno sfuocati. Quindi se siamo abbastanza vicini al soggetto, con un diaframma medio, ci troveremo uno sfuocato dietro il soggetto principale (come nell’immagine seguente).
Per quanto riguarda la dimensione del sensore anche questo concetto cambia. Con un sensore Full Frame troveremo il problema della diffrazione già oltre l’apertura di f11, con un sensore con formato più piccolo (ad esempio APS-C) lo troveremo già dopo f8 e con un sensore ancora più piccolo (ad esempio un micro 4/3) lo troveremo già dopo f5.6. Faccio un esempio pratico: foto al volto volendo avere la massima qualità di immagine e con uno sfuocato “artistico” alle spalle del soggetto, con un sensore Full Frame posso utilizzare un f11, con un sensore APS-C posso utilizzare un f8 o f9 e con una 4/3 (o micro 4/3) utilizzo un f5.6. Il risultato sarà lo stesso in termini di profondità di campo (sfuocato dietro il soggetto) e avremo la massima qualità di immagine possibile per quella dimensione di sensore.
Di seguito vedete tre immagini di uno stesso soggetto ma con tre diaframmi diversi: f2.8 – f9 e f32. A grandezza normale non sembra che ci sia differenza ma andando nel particolare si evince la maggiore nitidezza (qualità) del diaframma f9.
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In questo articolo vi parlo in modo dettagliato degli obiettivi, la loro storia, le caratteristiche e il loro utilizzo. Per fotografare non serve solo una fotocamera ma anche una lente, o serie di lenti, che permettono alla luce di convogliarsi verso il sensore (o il materiale sensibile) in modo tale da formare l’immagine.
Storia
I primi studi sulle lenti risalgono al 1500 in cui vengono creati lenti e diaframmi applicati al foro stenopeico migliorando la qualità delle immagini proiettate sulle pareti. Un attimo, fermi tutti, che cosa è il foro stenopeico? Per questa spiegazione dobbiamo scomodare Leonardo Da Vinci e la sua invenzione, la Camera Obscura. Era una camera stagna con un foro su una parete dal quale entrava la luce e veniva proiettata sulla parete opposta (capovolta). L’artista di turno faceva un bozzetto con misurazioni di quello che gli interessava e poi andava in studio e faceva la foto…. Ma che dico siamo nel 1500 🙂 …disegnava il quadro. Ma il primo vero obiettivo per la fotografia è stato sviluppato nel 1829 da Charles Chevalier che realizza le prime due lenti acromatiche, composte da un elemento positivo e da uno negativo con vetri ottici di potere dispersivo uguale e contrario. Produsse anche, per le fotocamere sviluppate da Alphonse Giraux (Dagherrotype), un obiettivo con focale di 403mm con diaframma f/11. Successivamente nel 1840 nasce il primo obiettivo calcolato matematicamente da Joseph Petzival con luminosità f/3 (che vedete nell’immagine di seguito).
Riepilogo del termine Reflex
Ripetiamo il significato del termine “Reflex” così dà capire meglio di cosa stiamo per parlare. Infatti quello che noi vediamo all’interno del mirino è esattamente ciò che, premendo il pulsante di scatto, andremo a impressionare. Questa valutazione è molto importante perchè se utilizzassimo una fotocamera con mirino non sullo stesso asse dell’obiettivo non avremo la stessa visione di quello che vediamo. Questa problematica è stata presente nelle fotocamere analogiche (anche le prime digitali) “inquadra e scatta” che venivano anche vendute in formato usa e getta, avevano un mirino su un lato in alto e non si vedeva esattamente quello che avrebbe visto l’obiettivo. Usando queste fotocamere per un uso casalingo (essendo anche molto economiche) non c’erano grossi problemi, ma se le avessimo utilizzate in ambito medico (o specialistico) sarebbe stato impossibile registrare correttamente i giusti piani di riferimento (ad esempio quelli anatomici).
Entriamo nel vivo
La traduzione inglese di obiettivi fotografici è “lens” io crede che essa renda meglio il concetto di cosa è un obiettivo, un insieme di lenti adattate a gruppi in un barilotto, di materiale plastico o metallico, che permette di convogliare la luce sul sensore o sulla pellicola. Gli obiettivi si dividono in due famiglie, quelli fissi e quelli a focale variabile (detti comunemente zoom).
La lunghezza focale (il numero espresso in mm) è la distanza che c’è tra il centro ottico dell’obiettivo e il sensore (o il materiale sensibile), quando è variabile il centro ottico cambia e di conseguenza anche la sua distanza dal sensore.
Gli obiettivi si dividono anche in altre categorie: grandangolari (da 18 a 35mm), normali (da 35 a 60mm) e teleobiettivi (oltre i 60mm). La differenza in queste ultime categorie, oltre alla lunghezza focale, è l’angolo di visuale (angolo di campo) nei grandangolari è 60° o superiore, nei normali va tra i 45° e i 60° e in quelli tele inferiore ai 60°. Il cambio di angolo di campo non significa perdita di qualità ma solo un cambio di visuale. Quando si parla di obiettivo, e di luce che arriva al sensore, dobbiamo anche analizzare e comprendere che cosa è il diaframma e come funziona.
Sulla parte finale dell’obiettivo verso l’attacco che va alla fotocamera si trovando delle lamelle che si aprono e si chiudono in base all’utilizzo scelto. Quando si acquista un obiettivo e si leggono le sue caratteristiche si può notare una lettera “f” minuscola con un numero 2.8, 3.5 o 5.6 che indicano la “luminosità” cioè l’apertura massima del diaframma. Più questo numero è basso e più è grande l’apertura del diaframma infatti gli obiettivi cosiddetti luminosi hanno una ampia apertura (1.2 – 1.4 – 1.8 – 2.8) ma proprio per questo sono anche molto più costosi degli obiettivi con minore apertura. Di solito gli obiettivi con aperture elevate e quindi molto luminosi sono anche costruiti con una maggiore qualità di solito sono a focale fissa ma si trovano in commercio anche degli ottimi zoom molto luminosi. Ho trattato in modo particolare la questione esposizione in questo articolo. I valori dei diaframmi sono delle frazioni che dividono la lunghezza focale (f) al numero scelto infatti facendo un esempio: su un obiettivo 50mm impostando un diaframma f/2 sappiamo che il diametro del foro è di 25mm (50 diviso 2).
Distorsione
La distorsione è una problematica ottica che è presente in ogni apparecchiatura fornita di lenti. Solo gli obiettivi normali e gli obiettivi macro sono privi di distorsione mentre tutti gli altri (anche se minima) hanno questa problematica. Gli unici obiettivi che hanno la possibilità del controllo della distorsione sono quelli decentrabili (alla fine dell’articolo ne parlo). Tornando al tipo di distorsione prssente negli obiettivi dividiamo in due tipi: la distorsione a barilotto, che colpisce normalmente gli obiettivi grandangolari, e quella a cuscinetto, che colpisce i teleobiettivi. Credo che una immagine valga più di mille parole, quindi vi faccio vedere la differenza delle distorsioni con le immagini di seguito.
Obiettivi di uso specialistico
Dobbiamo dividere le famiglie degli obiettivi in altre due per usi scientifici (quindi con costi anche più elevati): obiettivi macro e obiettivi decentrabili. In realtà ci sono anche gli obiettivi chiamati FishEye (occhio di pesce) che hanno un angolo di campo molto esteso tanto da poter scattare foto a 180° ma credo che questi siano esclusivamente per appassionati e per scopi specifici. Gli obiettivi macro hanno una caratteristica sostanziale, rispetto a quelli normali, si possono avvicinare molto al soggetto con ingrandimenti di 1:1 e oltre. Essendo stati creati per scopi scientifici non hanno distorsione. Se volete approfondire la fotografia macro potete andare su questa pagina
Gli obiettivi decentrabili sono stati creati per scopi geometrici e ingegneristici. Tramite una manopola si può decentrare la lente così da rendere le linee di edifici diritte senza la comune distorsione grandangolare a barilotto. Come già detto questi ultimi obiettivi non sono necessari nel armamentario di ogni fotografo, professionista o amatore che sia, ma sono per scopi specifici e soprattutto hanno un costo elevato.
Fattore di Crop
Un’ ultima considerazione molto importante è con quale sensore è equipaggiata la vostra fotocamera. Esistono due tipi di sensori, per uso generico, quelli Full Frame (pieno formato) e quelli APS-C (un po più piccolo). Esistono anche altre grandezze per esempio i formati ancora più grandi dei Full Frame ma sono per scopi molto specialistici e con costi elevatissimi. Se montiamo un obiettivo da 50mm su una fotocamera Full Frame avremo un angolo di campo di 47°. Se invece lo stesso obiettivo lo montiamo su una fotocamera con sensore APS-C dovremo moltiplicare alla lunghezza focale un valore (dichiarato dalla casa madre) chiamato “fattore di Crop”. Quindi, facendo un esempio con Nikon, se montassimo un obiettivo 50mm su una APS-C dovremo moltiplicare 1,5 (fattore di crop della Nikon) a 50mm quindi diventerà 75mm e l’angolo di campo invece di 47° diventerà intorno ai 30°. Nella pratica avremo semplicemente un avvicinamento al soggetto. Questo concetto è particolarmente importante nella scelta degli obiettivi perché se voglio scattare panorami devo sapere che se acquisto un 18mm e ho una APS-C sarà 27mm.
Concludendo
In questo articolo vi ho dato una infarinatura di che cosa sono gli obiettivi e quali sono i vari tipi e utilizzi. La scelta su quale sia giusto da acquistare bisogna che la facciate voi in base a quello che fotografate di più e soprattutto al vostro budget. Vi do qualche idea per aiutarvi:
Panorami – Grandangolo Ritratti – Da 50 a 100mm Sport – Tele Safari – Tele spinto Uso generico va benissimo uno zoom che copra una lunghezza focale di 18-300mm.
Se avete bisogno di acquistare fotocamere, obiettivi e accessori potete andare su questa mia pagina dove troverete un grande elenco con i vari link per l’acquisto.
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