La diffrazione è una problematica della fotografia conosciuta già dagli albori. Si riferisce al percorso della luce che entra all’interno dell’obiettivo che trova lungo il suo percorso il diaframma.
La diffrazione ha questa caratteristica: il raggio luminoso attraversa l’obiettivo e arrivando al materiale fotosensibile (pellicola o sensore) incontra sulla sua strada il diaframma che se è di diametro totalmente chiuso crea un effetto ventaglio o comunque di variazione della direzione dei raggi. Questo provoca una fotografia con una qualità bassa e per poter avere un’immagine con una massima qualità bisognerà utilizzare un’apertura del diaframma medio.
Tutti gli obiettivi hanno una piccola, media e grande apertura e tutti nella apertura media hanno i valori uguali cioè tra f8 e f11. Per poter avere il massimo della qualità di quell’obiettivo, quindi, è consigliabile utilizzare un diaframma medio e per comodità utilizziamo f9. Il problema di questa scelta della apertura è direttamente collegato alla profondità di campo (di cui ho approfonditamente parlato in questo articolo). Riepilogando sappiamo che con diaframma aperto si ha il soggetto principale a fuoco e il restante sfocato e il contrario con un diaframma chiuso.
Quindi sapendo che esiste la diffrazione bisogna avere le nozioni tecniche fondamentali per capire come e quando utilizzare un diaframma medio. Non è sempre necessario cercare la qualità massima della fotografia e quindi l’utilizzo e la comprensione della apertura del diaframma è di cruciale importanza.
Numerosi testi di fotografia hanno trattato questo argomento ma ne prendo uno come esempio (Il Manuale del Fotografo di John Hedgecoe – Arnoldo Mondadori Editore del 1978) che recita: “Direzione secondo cui le onde luminose sono costrette a deviare o subiscono un effetto di diffusione, per essere costrette ad attraversare una stretta fessura (diaframma) o per essere contigue ad una superficie opaca. La diffrazione diminuisce la qualità dell’immagine e si verifica quando l’obiettivo è regolato su un’apertura minima, ad esempio f/45. Le foto migliori si ottengono a metà strada, con la gamma di aperture alle quali si bilanciano le aberrazioni e non si è ancora presentata la diffrazione”.
Rispetto alla grandezza del sensore devo aprire una parentesi perchè l’utilizzo del diaframma, medio nelle fotocamere con sensore Full Frame, è tra f8 e f11, quindi per avere una massima qualità di immagine dobbiamo utilizzare una tra queste aperture (f8 – f9 – f11). Ma ricordiamo che la profondità di campo, che è quanto si vede a fuoco tra il soggetto principale e gli altri presenti nella scena, varia secondo l’apertura del diaframma. Più è aperto (f2.8 ad esempio) più il soggetto principale risulterà a fuoco e i soggetti posti a distanze diverse risulteranno sfuocati. Quindi se siamo abbastanza vicini al soggetto, con un diaframma medio, ci troveremo uno sfuocato dietro il soggetto principale (come nell’immagine seguente).
Per quanto riguarda la dimensione del sensore anche questo concetto cambia. Con un sensore Full Frame troveremo il problema della diffrazione già oltre l’apertura di f11, con un sensore con formato più piccolo (ad esempio APS-C) lo troveremo già dopo f8 e con un sensore ancora più piccolo (ad esempio un micro 4/3) lo troveremo già dopo f5.6. Faccio un esempio pratico: foto al volto volendo avere la massima qualità di immagine e con uno sfuocato “artistico” alle spalle del soggetto, con un sensore Full Frame posso utilizzare un f11, con un sensore APS-C posso utilizzare un f8 o f9 e con una 4/3 (o micro 4/3) utilizzo un f5.6. Il risultato sarà lo stesso in termini di profondità di campo (sfuocato dietro il soggetto) e avremo la massima qualità di immagine possibile per quella dimensione di sensore.
Di seguito vedete tre immagini di uno stesso soggetto ma con tre diaframmi diversi: f2.8 – f9 e f32. A grandezza normale non sembra che ci sia differenza ma andando nel particolare si evince la maggiore nitidezza (qualità) del diaframma f9.
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La Nikon D90 è una fotocamera reflex digitale con sensore in formato DX (cioè APS-C grandezza di 23,5×15,7mm) prodotta dal 2008 al 2010. La D90 è stata una macchina molto ben riuscita e anche longeva, tanto è vero che ancora oggi è utilizzata.
Nella fotografia medica e dentale ha fatto storia tanto che era considerata la fotocamera ideale per questo scopo.
Era equipaggiata dallo stesso sensore della Nikon D300, da 12,3 MegaPixels, e con una mia personale considerazione donava una colorazione neutra anche scattando con automatismi.
Dopo la semi-professionale D300, la D90 è la prima fotocamera di fascia intermedia, in casa Nikon, a montare il sistema LiveView, mentre è la prima reflex in assoluto a registrare filmati, perlopiù in formato HD (1280 x 720) a 24 frame al secondo in MPEG compresso.
Un altro grande pregio della Nikon D90 è che ha il corpo tropicalizzato, cioè resistenti agli agenti atmosferici e a temperature estreme, questa caratteristica di solito è ad appannaggio delle fotocamere professionali.
ll display principale, sul retro del corpo macchina, è di 3 pollici per 920.000 punti; un secondo display LCD retroilluminato, con informazioni sulle impostazioni di scatto correnti, si trova sulla parte superiore del corpo macchina. Informazioni sui dati di scatto sono riportate anche all’interno del mirino a pentaprisma. Nel corpo macchina è presente anche un flash a scomparsa con numero guida pari a 17 (a 200 ISO). La macchina ha una interfaccia USB 2.0 e monta schede di memoria SD, con supporto SDHC.
Una particolare caratteristica che si differenzia rispetto ad altre fotocamere di pari caratteristiche è che la sensibilità ISO minima disponibile è di 200 e si estende al massimo a 6400.
Fra i numerosi optional disponibili per la macchina c’è l’impugnatura MBD80 (la stessa della D80), che offre la possibilità di alimentare la macchina con due batterie Nikon, o con un set di comuni batterie “stilo”, per aumentare l’autonomia di scatto della macchina. Nel 2011 la Nikon Corporation ha lanciato sul mercato la D7000 modello destinato a sostituire la D90.
Concludendo esprimo una mia personale considerazione su questa splendida fotocamera anche perché l’ho utilizzata per tanto tempo in ogni condizione. La Nikon D90 è una fotocamera che permette di avere dei file di ottima qualità ma soprattutto con una colorazione molto neutra. È stata utilizzata moltissimo nella foto dentale proprio per la giusta colorazione e anche per la sua compatibilità con sistemi di flash macro come i Flash Wireless Gemellari Nikon SB-R200. È possibile utilizzare ogni tipo di obiettivo con autofocus perché il motore è interno alla fotocamera.
Caratteristiche: Sensore: APS-C (23,5×15,7mm fatt. 1,5x) 12,3 MegaPixel File: RAW (NEF) e JPG Autofocus a 51 aree dinamiche Sensibilità ISO: da 200 a 6400 Velocità di scatto: da 30 secondi a 1/4000 Flash integrato Pop-up TTL Corpo in lega di magnesio tropicalizzato Schermo: 3,0 pollici Memoria SD con supporto SDHC Batteria Nikon ricaricabile Dimensioni: 132x103x77mm Peso: 700g
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John Paul Edwards (Minnesota, 5 giugno 1884 – Oakland, 1968) è stato un fotografo statunitense, e membro del Gruppo f/64.
Trasferitosi in California nel 1902, non si sa come John Paul Edwards iniziò ad interessarsi alla fotografia, ma già nei primi anni venti era un membro dell’Oakland Camera Club, della società fotografica di San Francisco Society e del Pictorial Photographers of America.
Le sue prime fotografie erano in stile pittorialista, ma verso la fine degli anni venti mutò in un puro stile diretto. Intorno al 1930 Edwards incontra Willard Van Dyke e Edward Weston. Entro due anni erano diventati buoni amici, e nel 1932, Edwards è stato invitato ad essere uno dei membri fondatori del Gruppo f/64, insieme con Weston, Van Dyke, Ansel Adams, Imogen Cunningham, Sonya Noskowiak e Henry Swift. Ha partecipato alla caratterista mostra del Gruppo f/64 presso il Young Memorial Museum, in cui venivano mostrate nove immagini di barche, catene di ancoraggio e carri agricoli.
Ha continuato a fotografare per molti anni dopo che il Gruppo f/64 si sciolse nel 1935, ma non ebbe la fortuna che ebbero gli altri membri del gruppo. Nel 1967 lui e sua moglie donarono un’importante collezione di fotografie all’Oakland Museum. È morto ad Oakland, in California nel 1968.
In questo articolo vi parlo in modo dettagliato degli obiettivi, la loro storia, le caratteristiche e il loro utilizzo. Per fotografare non serve solo una fotocamera ma anche una lente, o serie di lenti, che permettono alla luce di convogliarsi verso il sensore (o il materiale sensibile) in modo tale da formare l’immagine.
Storia
I primi studi sulle lenti risalgono al 1500 in cui vengono creati lenti e diaframmi applicati al foro stenopeico migliorando la qualità delle immagini proiettate sulle pareti. Un attimo, fermi tutti, che cosa è il foro stenopeico? Per questa spiegazione dobbiamo scomodare Leonardo Da Vinci e la sua invenzione, la Camera Obscura. Era una camera stagna con un foro su una parete dal quale entrava la luce e veniva proiettata sulla parete opposta (capovolta). L’artista di turno faceva un bozzetto con misurazioni di quello che gli interessava e poi andava in studio e faceva la foto…. Ma che dico siamo nel 1500 🙂 …disegnava il quadro. Ma il primo vero obiettivo per la fotografia è stato sviluppato nel 1829 da Charles Chevalier che realizza le prime due lenti acromatiche, composte da un elemento positivo e da uno negativo con vetri ottici di potere dispersivo uguale e contrario. Produsse anche, per le fotocamere sviluppate da Alphonse Giraux (Dagherrotype), un obiettivo con focale di 403mm con diaframma f/11. Successivamente nel 1840 nasce il primo obiettivo calcolato matematicamente da Joseph Petzival con luminosità f/3 (che vedete nell’immagine di seguito).
Riepilogo del termine Reflex
Ripetiamo il significato del termine “Reflex” così dà capire meglio di cosa stiamo per parlare. Infatti quello che noi vediamo all’interno del mirino è esattamente ciò che, premendo il pulsante di scatto, andremo a impressionare. Questa valutazione è molto importante perchè se utilizzassimo una fotocamera con mirino non sullo stesso asse dell’obiettivo non avremo la stessa visione di quello che vediamo. Questa problematica è stata presente nelle fotocamere analogiche (anche le prime digitali) “inquadra e scatta” che venivano anche vendute in formato usa e getta, avevano un mirino su un lato in alto e non si vedeva esattamente quello che avrebbe visto l’obiettivo. Usando queste fotocamere per un uso casalingo (essendo anche molto economiche) non c’erano grossi problemi, ma se le avessimo utilizzate in ambito medico (o specialistico) sarebbe stato impossibile registrare correttamente i giusti piani di riferimento (ad esempio quelli anatomici).
Entriamo nel vivo
La traduzione inglese di obiettivi fotografici è “lens” io crede che essa renda meglio il concetto di cosa è un obiettivo, un insieme di lenti adattate a gruppi in un barilotto, di materiale plastico o metallico, che permette di convogliare la luce sul sensore o sulla pellicola. Gli obiettivi si dividono in due famiglie, quelli fissi e quelli a focale variabile (detti comunemente zoom).
La lunghezza focale (il numero espresso in mm) è la distanza che c’è tra il centro ottico dell’obiettivo e il sensore (o il materiale sensibile), quando è variabile il centro ottico cambia e di conseguenza anche la sua distanza dal sensore.
Gli obiettivi si dividono anche in altre categorie: grandangolari (da 18 a 35mm), normali (da 35 a 60mm) e teleobiettivi (oltre i 60mm). La differenza in queste ultime categorie, oltre alla lunghezza focale, è l’angolo di visuale (angolo di campo) nei grandangolari è 60° o superiore, nei normali va tra i 45° e i 60° e in quelli tele inferiore ai 60°. Il cambio di angolo di campo non significa perdita di qualità ma solo un cambio di visuale. Quando si parla di obiettivo, e di luce che arriva al sensore, dobbiamo anche analizzare e comprendere che cosa è il diaframma e come funziona.
Sulla parte finale dell’obiettivo verso l’attacco che va alla fotocamera si trovando delle lamelle che si aprono e si chiudono in base all’utilizzo scelto. Quando si acquista un obiettivo e si leggono le sue caratteristiche si può notare una lettera “f” minuscola con un numero 2.8, 3.5 o 5.6 che indicano la “luminosità” cioè l’apertura massima del diaframma. Più questo numero è basso e più è grande l’apertura del diaframma infatti gli obiettivi cosiddetti luminosi hanno una ampia apertura (1.2 – 1.4 – 1.8 – 2.8) ma proprio per questo sono anche molto più costosi degli obiettivi con minore apertura. Di solito gli obiettivi con aperture elevate e quindi molto luminosi sono anche costruiti con una maggiore qualità di solito sono a focale fissa ma si trovano in commercio anche degli ottimi zoom molto luminosi. Ho trattato in modo particolare la questione esposizione in questo articolo. I valori dei diaframmi sono delle frazioni che dividono la lunghezza focale (f) al numero scelto infatti facendo un esempio: su un obiettivo 50mm impostando un diaframma f/2 sappiamo che il diametro del foro è di 25mm (50 diviso 2).
Distorsione
La distorsione è una problematica ottica che è presente in ogni apparecchiatura fornita di lenti. Solo gli obiettivi normali e gli obiettivi macro sono privi di distorsione mentre tutti gli altri (anche se minima) hanno questa problematica. Gli unici obiettivi che hanno la possibilità del controllo della distorsione sono quelli decentrabili (alla fine dell’articolo ne parlo). Tornando al tipo di distorsione prssente negli obiettivi dividiamo in due tipi: la distorsione a barilotto, che colpisce normalmente gli obiettivi grandangolari, e quella a cuscinetto, che colpisce i teleobiettivi. Credo che una immagine valga più di mille parole, quindi vi faccio vedere la differenza delle distorsioni con le immagini di seguito.
Obiettivi di uso specialistico
Dobbiamo dividere le famiglie degli obiettivi in altre due per usi scientifici (quindi con costi anche più elevati): obiettivi macro e obiettivi decentrabili. In realtà ci sono anche gli obiettivi chiamati FishEye (occhio di pesce) che hanno un angolo di campo molto esteso tanto da poter scattare foto a 180° ma credo che questi siano esclusivamente per appassionati e per scopi specifici. Gli obiettivi macro hanno una caratteristica sostanziale, rispetto a quelli normali, si possono avvicinare molto al soggetto con ingrandimenti di 1:1 e oltre. Essendo stati creati per scopi scientifici non hanno distorsione. Se volete approfondire la fotografia macro potete andare su questa pagina
Gli obiettivi decentrabili sono stati creati per scopi geometrici e ingegneristici. Tramite una manopola si può decentrare la lente così da rendere le linee di edifici diritte senza la comune distorsione grandangolare a barilotto. Come già detto questi ultimi obiettivi non sono necessari nel armamentario di ogni fotografo, professionista o amatore che sia, ma sono per scopi specifici e soprattutto hanno un costo elevato.
Fattore di Crop
Un’ ultima considerazione molto importante è con quale sensore è equipaggiata la vostra fotocamera. Esistono due tipi di sensori, per uso generico, quelli Full Frame (pieno formato) e quelli APS-C (un po più piccolo). Esistono anche altre grandezze per esempio i formati ancora più grandi dei Full Frame ma sono per scopi molto specialistici e con costi elevatissimi. Se montiamo un obiettivo da 50mm su una fotocamera Full Frame avremo un angolo di campo di 47°. Se invece lo stesso obiettivo lo montiamo su una fotocamera con sensore APS-C dovremo moltiplicare alla lunghezza focale un valore (dichiarato dalla casa madre) chiamato “fattore di Crop”. Quindi, facendo un esempio con Nikon, se montassimo un obiettivo 50mm su una APS-C dovremo moltiplicare 1,5 (fattore di crop della Nikon) a 50mm quindi diventerà 75mm e l’angolo di campo invece di 47° diventerà intorno ai 30°. Nella pratica avremo semplicemente un avvicinamento al soggetto. Questo concetto è particolarmente importante nella scelta degli obiettivi perché se voglio scattare panorami devo sapere che se acquisto un 18mm e ho una APS-C sarà 27mm.
Concludendo
In questo articolo vi ho dato una infarinatura di che cosa sono gli obiettivi e quali sono i vari tipi e utilizzi. La scelta su quale sia giusto da acquistare bisogna che la facciate voi in base a quello che fotografate di più e soprattutto al vostro budget. Vi do qualche idea per aiutarvi:
Panorami – Grandangolo Ritratti – Da 50 a 100mm Sport – Tele Safari – Tele spinto Uso generico va benissimo uno zoom che copra una lunghezza focale di 18-300mm.
Se avete bisogno di acquistare fotocamere, obiettivi e accessori potete andare su questa mia pagina dove troverete un grande elenco con i vari link per l’acquisto.
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Walker Evans nato a Saint Louis il 3 Novembre 1903 e morto a New Haven il 10 Aprile 1975. La sua era una famiglia abbiente, il padre lavorava nel mondo della pubblicità e per lui la vicinanza alla fotografia diventa naturale. Fin da piccolo riesce a prendere dimestichezza con la macchina fotografica.
Il primo approccio all’arte
In realtà il primo approccio artistico di Walker Evans non è stata la fotografia ma la letteratura. Studiò in Pennsylvania, Connecticut e Massachusetts prima di trasferirsi per un anno a Parigi. Al ritorno a New York cerca di sfondare nel campo della letteratura come scrittore. A Parigi entra in contatto con Eugene Atget e la sua allieva Berenice Abbott che avranno un grosso impatto nella sua formazione e nello stile della sua fotografia. Nel 1930, dopo aver capito che non avrebbe sfondato come scrittore, inizia l’avventura nella fotografia ma la letteratura resta sempre il suo primo amore. New York era una città piena di grattacieli, grandi palazzi e con una fisionomia industriale. Walker Evans fotografa La Grande Mela così come è senza cercare espedienti estetici.
Cuba 1933
Viaggia Cuba, nel 1933, dove stringe amicizia con Ernest Hemingway. A Cuba si immerge totalmente nella vita dell’isola dove scatta, con tratti sempre realistici, la vita quotidiana. Per paura che i suoi scatti potessero risultare sovversivi, prima di partire, Evans affida 46 immagini a Hemingway. Queste immagini perse e ritrovate solo dopo molto tempo, nel 2002.
La Grande Depressione Americana
Cercando di contrastare la Grande Depressione, il New Deal di Roosevelt, favori il lavoro di alcuni fotografi in particolare Walker Evans che nel biennio 1935/1936 riesce a catturare momenti di vita quotidiana degli americani di provincia. La FSA (Farm Security Administration), un’istituzione del ministero dell’agricoltura, fa entrare Evans all’interno della cosiddetta “unità storica” facendogli percepire uno stipendio regolare. La sua missione all’interno della ”unita storica” era un’indagine fotografica nell’America rurale, soprattutto negli Stati Uniti del Sud. Decide di fotografare la vita quotidiana di “provincia” con una vecchia fotocamera perché aveva intenzione di ribadire il momento di crisi nazionale e poi era quello che aveva fatto anche il suo “maestro” Eugene Atget a Parigi. Con questa fotocamera obsoleta cattura immagini di chiese, lavoratori e insegne sbiadite proprio per rimarcare il momento di profonda crisi nazionale.
Insieme allo scrittore James Agee collabora ad un testo dal nome “Let Us Now Praise Famous Men (Sia lode ora a uomini di fama) “ nel 1941. All’interno di questo lavoro troviamo fotografie di Walker Evans, senza la ricerca estetica (quindi documentando la realtà), che documentano la cruda realtà della Grande Depressione. Questo lavoro di Evans e di Agee è stato commissionato dalla rivista Fortune anche se dopo aver visto il materiale raccolto dai due lo aveva giudicato troppo realistico, complesso e crudo. I protagonisti del libro sono la vita delle famiglie dei coltivatori di cotone, fotografate negli anni 30 nelle zone più povere degli Stati Uniti. Il libro è stato poi ripubblicato nel 1960.
Nel 1938, al Museum of Modern Art a New York, espone per la prima volta con una sua mostra personale con la quale il pubblico gli riconosce la capacità di aver catturato la realtà della vita quotidiana degli americani. Evans entra a far parte dello staff della rivista Times, nel 1945, e successivamente anche di Fortune con cui collaborerà per molti anni (20 anni). La Yale University School of Art gli da la docenza, nel 1965. Scattando sempre meno insegnerà fino alla fine dei suoi giorni. Negli ultimi anni Walker Evans scatta con una Polaroid SX-70. Questo innovativo modo di fotografare vedendo subito il risultato gli permette di trovare altre forme espressive.
Walker Evans era una persona molto schiva e introversa, non amava parlare di se. Nel 2008 l’ex moglie pubblica una sua biografia che rivela il vero suo vero carattere. Nella biografia si evince che Walker Evans era una persona eccentrica, con uno spirito determinato, ma anche con carattere snob egocentrico.
Nell’arco della sua vita da artista gira l’America alla ricerca di quelle situazioni che facessero intravedere la realtà quotidiana. Per esempio ha girato in metropolitana con una fotocamera nascosta nel cappotto fotografando persone comuni e quindi lo scorrere della vita. La voglia di Walker Evans non era quella di mostrarsi un artista ma voleva documentare la realtà senza manipolazioni e senza dare una propria idea. Ecco perché è considerato il più grande fotografo del tempo che è riuscito a mostrare la vera realtà della condizione degli americani durante la Grande Depressione. La mia riflessione è che Evans abbia utilizzato le fotocamere come un’estensione del suo occhio critico della vita quotidiana di una popolazione in forte sofferenza, mostrando anche i contrasti sociali.
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In questo articolo vi parlerò della sensibilità ISO, di cosa significa e come utilizzarla.
Cosa avviene quando scattiamo
Facciamo un veloce riepilogo su cosa avviene nel momento in cui premiamo il pulsante di scatto. La luce entra nel obiettivo, passa attraverso il diaframma, arriva allo specchio (che ci permette di vedere nel mirino quello che stiamo inquadrando), al momento dello scatto lo specchio si alza e fa passare la luce fino ad arrivare al materiale fotosensibile.
Fotografia analogica
Perché ho detto materiale fotosensibile? Perché agli albori della fotografia c’erano le lastre, chimicamente trattate, poi sono arrivate le pellicole ed ora il sensore ma il percorso che fa la luce è sempre lo stesso. In analogico (con le pellicole) si parlava di sensibilità ASA cioè in base alle condizioni di luce si sceglieva la sensibilità. Cerchiamo di semplificare il concetto di “sensibilità alla luce”. Potremo dire che le pellicole sono formate da grani d’argento. Se questi grani sono piccoli (ad es. ASA 100) la pellicola sarà poco sensibile e quindi potrà essere utilizzata con una luce diurna ed adeguata. Al contrario se ci troviamo con una pellicola con grani d’argento grandi (es. ASA 400) essa sarà più sensibile alla luce e quindi si potrà scattare in condizioni di scarsa luminosità.
Cosa succede in fotografia quando scegliamo un valore diverso
Ok fin qui tutto chiaro, almeno spero :), ma cosa succede oltre a questo scegliendo una sensibilità diversa? Con un numero di ASA più basso avremo una qualità della foto maggiore, quando utilizziamo una pellicola più sensibile troveremo una grana all’interno dell’immagine (dovuta alle maggiori dimensioni dei grani d’argento). Bene ho fatto questa premessa analogica così da poter spiegare più facilmente il concetto sul sensore digitale.
Fotografia digitale
Il sensore è un chip informatico fotosensibile che permette di catturare la luce e tramite un sistema di conversione analogico-digitale (dalla luce analogica in linguaggio informatico) di creare un file dell’immagine scattata, o meglio ancora, catturata. Essendo un chip per funzionare ha bisogno di essere elettrificato. Sempre semplificando tantissimo, potremo dire che se abbiamo più corrente elettrica più il sensore tenderà a riscaldarsi e a creare artefatti nell’immagine finale. Probabilmente leggendo una cosa del genere gli ingegneri che hanno sviluppato i sensori staranno pensando “Ma che cavolo sta dicendo”, 🙂 lo ripeto: i concetti, da me espressi, sono semplicemente una voglia di rendere comprensibile a tutti dei concetti che possono sembrare ostici.
Tornando alla nostra sensibilità ISO vi faccio vedere alcune immagini che vi fanno capire questi concetti più di mille parole. Quindi ricapitolando: con valori di ISO bassi (100 o anche meno su alcune fotocamere) avremo una qualità fotografica buona, alzando il valore della sensibilità ISO (oltre i 400 – 800) avremo una fotografia con la presenza di rumore digitale. Nell’era analogica la grana presente nelle immagini, scattate con pellicole molto sensibili, era un effetto anche artistico e ricercato. Mentre nel digitale aumentando il valore della sensibilità ISO ci troveremo davanti a macchie, sulla fotografia, irregolari e anche una colorazione della scena differente. Fotocamere di alta qualità (e considerevole costo) hanno un sensore di qualità superiore e possono scattare anche con una sensibilità ISO molto elevata ma avere poco rumore. Io cerco di non andare oltre gli 800 ISO e con macchine datate non mi spingo oltre i 400 ISO.
Concludendo possiamo dire che più scattiamo con valori di sensibilità ISO bassi è la fotografia avrà più qualità e se abbiamo bisogno di alzare il valore della sensibilità ISO non dovremo andare oltre gli 800 a meno che non abbiamo una fotocamere molto performante.
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Garry Winogrand nato a New York il 14 Gennaio 1928 e morto a Tijuana (Messico) il 19 Marzo 1984. Le sua era una famiglia molto umile di origine ebraica e abitavano nel Bronx, Il padre era conciatore di pelli e la madre sarta.
Durante il servizio militare si appassiona alla fotografia e decide di studiare presso la Columbia University di New York pittura e fotografia. Contemporaneamente ai suoi studi frequenta un corso di fotogiornalismo alla New School for Social Research tenuto da Alexey Brodovitch (un designer, fotografo e direttore artistico russo).
Negli anni 50 vince de borse di studio della Guggenheim Foundation che gli permettono di lavorare come freelance. In questo periodo cerca di concentrare il suo lavoro sulle strade e nella vita di New York ed altre città americane.
Nel suo lavoro riesce a raccogliere 300 mila immagini di vita quotidiana degli americani dove si evincono anche contraddizioni sociali e la vita caotica. Infatti è proprio la vita caotica ad interessare Winogrand che riesce a riorganizzare in immagini di sorprendente caos / ordinato.
Nel 1963 è stata organizzata una esposizione al Moma di New York che riesce a consacrarlo come grande artista quale era.
Purtroppo si ammala di un tumore alla colecisti che lo porta alla morte nel 1984 a soli 56 anni. Anche se la sua vita è finita presto riesce a lasciare un grandissimo archivio di immagini, con molte mai sviluppate. Alcune di queste fotografie mai sviluppate sono state, successivamente, raccolte, esposte e pubblicate in volume dal titolo Winogrand, Figments from the Real World dal Moma.
Credo che la street photography sia un tipo di fotografia molto particolare dove ci vuole un mix di empatia, curiosità, voglia di denuncia, essere impertinenti e sfrontati e anche un po di coraggio. Non è assolutamente facile girare per strada con una fotocamera e scattare fotografie a persone comuni senza che loro non se ne accorgano. Questo lato della street mi ha sempre intimorito e credo che per riuscire a fare delle grandi foto bisogna avere un carattere davvero sfrontato e senza paura. Chiunque abbia provato a fare delle foto per strada credo che possa capire la mia affermazione. In conclusione Garry Winogrand è stato uno dei protagonisti indiscussi della street photography americana.
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Ogni fotocamera ha i suoi programmi di scatto, che normalmente sono sempre gli stessi, anche sui diversi marchi. Le fotocamere professionali hanno solo i programmi manuali che io chiamo semplicemente MASP (M – A – S – P).
I programmi automatici sono preset interni alla fotocamera creati per dar modo ad ognuno (soprattutto i dilettanti) di fare delle buone foto in ogni condizione. I più comuni sono: Auto, Panorama, Ritratto, Macro, Sport, Ritratto Notturno e poi ci sono quelli manuali.
Analizziamo velocemente cosa occorre per creare una fotografia. Il famoso Triangolo dell’esposizione (di cui ho parlato in questo articolo) cioè i tre valori necessari per una fotografia: apertura del diaframma, tempo di scatto e sensibilità. Prima di scattare una foto, pensando in manuale, dobbiamo sapere che tipo di diaframma vogliamo utilizzare e, analizzando la luce presente nella scena, impostiamo un valore di sensibilità adatto e infine scegliamo (con l’aiuto dell’esposimetro) il tempo di scatto. Così avremo una fotografia correttamente esposta. Nei programmi di scatto automatici tutto questo lo imposta la fotocamera sapendo, in base al programma scelto, che cosa vogliamo fotografare e imposta i valori facendo in modo di darci una fotografia perfetta per quella scena. Certo questo ci aiuta, se non siamo esperti della fotografia, volendo utilizzare delle fotocamere di buon livello e abbiamo un giusto budget.
Ma la vera fotografia è avere controllo su tutto cercando di arrivare ad un risultato finale da noi desiderato. Quindi analizziamo i programmi di scatto manuali per capire quale potrebbe essere quello giusto per le nostre esigenze. M sta per Manual cioè la fotocamera dice: pensaci tu io non ho controlli, se la foto viene male sono problemi tuoi :). A sta per Aperture che in inglese significa diaframma e si chiama Priorità di Diaframma. In questo programma la fotocamera ci dice: tu scegli il diaframma ed io scelgo il tempo di scatto. S (Speed) è il programma che si chiama Priorità di Tempo dove noi impostiamo il tempo di scatto e la fotocamera imposta il diaframma. P è Program cioè un programma automatico / manuale dove la fotocamera sceglie il tempo e il diaframma. In tutti questi programmi di scatto manuali abbiamo il controllo manuale su tutte le impostazioni della fotocamera, due fra tutte il modo del flash e la sensibilità ISO che nei programmi automatici di solito non può essere impostata manualmente.
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Lee Friedlander è nato a Aberdeen (Washington) il 14 Luglio 1934.
Un grande artista statunitense della street photography ma più in particolare per le foto glamour e di artisti della musica e dello spettacolo. A detta di tutti una persona particolarmente gentile e a modo cosa che lo ha sempre contraddistinto. L’interesse per la fotografia nasce già da bambino a 14 anni.
Nel 1956Lee Friedlander va a Los Angeles studiando per un breve periodo all’ Art Centre School. Nello stesso anno si trasferisce a New York ed inizia la sua carriera fotografando musicisti da copertina per la casa discografica Atlantic Records, concentrandosi di più sugli interpreti di musica Jazz e Blues. Le sue collaborazioni principali di quel periodo, che lo hanno fatto diventare uno dei più importanti fotografi della musica, sono state: Duke Ellington, John Coltrane, Charles Mingus, Ray Charles, Aretha Franklin e Ruth Brown. Si dedica, in questo periodo, allo studio della fotografia in bianco e nero e inizia a sperimentare le foto di nudo. Collabora come freelance con riviste importanti come Collier’s, Sport Illustrated e McCall’s.
Gli anni ’60 sono gli anni in cui riesce a stringere molte amicizie importanti, nell’ambito della fotografia, come quella con Diane Arbus, Robert Frank e Garry Winogrand con cui parlerà molto della loro passione comune condividendo le riflessioni. Winogrand è l’artefice dell’entrata nel mondo della street photography di Friedlander.
Cercando la sua forma espressiva gira per le strade di New York incontrando tanti cambiamenti della società che però documenterà fotografando soggetti semplici. Sulle orme di Robert Frank e Walker Evans gira gli Stati Uniti facendo diventare il materiale principale dei suoi viaggi i luoghi e le persone che incontrava.
La prima mostra personale di Lee Friedlander è stata esposta nel 1963 al Museo Internazionale di Fotografia presso la George Eastman House.
Nel 1967 al Museo di Arte Moderna a New York ci fu una rivoluzionaria esibizione chiamata New Documents curata da John Szarkowski (curatore e studioso del Museo) e Friedlander fu incluso. Lee espose 30 fotografie con soggetti luoghi urbani e vennero esibite insieme a quelle di Winogrand e Arbus così da far avere una grande svolta nelle loro carriere.
Sul numero di Settembre 1985 di Playboy appaiono alcune fotografie di Friedlander della popstar Madonna, che all’epoca era una studentessa, in bianco e nero. Una di queste immagini fu battuta all’asta, successivamente, dalla casa Christie a 37.500 dollari. Ha utilizzato per molto tempo una Leica 35 mm.
Cercando di trovare un suo stile unico utilizza immagini riflesse di diversi oggetti quotidiani come ad esempio, vetrine di negozi o specchi di varie dimensioni.
Nel 1990 cambia la sua Leica 35mm con una Hasselblad Superwide così da poter avere delle immagini molto più nitide e dettagliate. Superwide si riferiva all’ottica grandangolare con cui la macchina era equipaggiata e la trovò subito molto più appropriata per il suo tipo di fotografia permettendogli di scattare foto dei paesaggi americani come quelle presenti in The Desert Seen del 1996.
Durante la sua carriera Friedlander vinse numerosi premi di prestigio. Alcuni di essi sono: tre borse di studio della Guggenheim Foundation (1960, 1962, e 1977), quattro finanziamenti da parte del National Endowment for the Arts (1977, 1978, 1979, e 1980), una medaglia Edward MacDowell (1986), French Chevalier of the Order of Arts and Letters (1999), un “finanziamento per il talento ingegnoso” da parte della MacArthur Foundation (1990), nel 2005 il MOMA gli ha dedicato una grande retrospettiva, che raccoglieva gli scatti dal 1950 a oggi, e nello stesso anno ha ottenuto il Premio Internazionale Hasselblad.
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In questo articolo vi spiegherò la gestione dell’esposizione e dell’esposimetro.
Una veloce introduzione
Fotografia etimologicamente significa scrivere con la luce. Questo concetto è importante perché ci fa capire che senza luce non potremo avere una fotografia…ok questo è un concetto semplicissimo che avrei potuto anche evitare :). La luce ha bisogno di essere compresa soprattutto quella naturale che ci permette, se usata bene, di fare delle buone fotografie. Ho detto buone fotografie? Beh adesso dobbiamo aprire un discorso sul che cosa significa “buone”. Sono dell’opinione che se parliamo di fotografia artistica non esiste un termine che possa essere una “buona” foto ma più che altro potremo dire così: “una fotografia artistica è l’estensione dell’occhio del fotografo con la sua sensibilità e il suo estro”. Quindi il concetto di “buona” foto lo potremo intendere solo nella fotografia tecnica. Avremo una “buona” foto quando i parametri di scatto sono giusti per dare una corretta esposizione all’immagine.
Triangolo dell’esposizione
In fotografia ci sono tre valori che ci permettono, se impostati correttamente, di fare una fotografia con una giusta esposizione e sono: apertura del diaframma, tempo di scatto e sensibilità ISO. Questo è comunemente chiamato il triangolo dell’esposizione. Quindi dobbiamo imparare ad utilizzare questi tre valori per poter creare una “buona” foto (in questo caso è giusto il termine visto che stiamo parlando di tecnica fotografica). Il primo fattore, l’apertura del diaframma, è abbastanza semplice da capire perché se abbiamo un diaframma più aperto (ad es. f2.8) entrerà più luce nella fotocamera mentre al contrario quando il diaframma è chiuso (ad es. f32) la luce che arriverà al materiale fotosensibile sarà poca. Il discorso apertura del diaframma si complica perché quando variamo l’apertura andiamo a modificare anche la profondità di campo che a questo importantissimo aspetto della fotografia ho trattato un intero articolo che potrete trovare a questo link. Invece il tempo di scatto è una frazione di secondo in cui lo specchio e la tendina dell’otturatore si aprono e si chiudono (se parliamo di fotocamere senza specchio come le mirrorless sarà la velocità di apertura e chiusura della tendina dell’otturatore). In tutte le fotocamere (che hanno la possibilità di impostare un programma di scatto manuale) si possono impostare i tempi che partono da 30 secondi ed arrivano fino a 1/4000 (8000 e oltre nelle fotocamere più performanti). Bene fin qui tutto chiaro, ma come scegliamo il tempo di esposizione?
Esposimetro
A questo scopo abbiamo un grande aiuto, l’esposimetro. L’esposimetro è un chip fotosensibile che, tramite una scala presente all’interno del mirino, ci dice che tempo dobbiamo utilizzare con quella apertura del diaframma e la sensibilità ISO scelta. La Treccani ci dice che l’esposimetro è: ”Apparecchio usato in fotografia e in cinematografia per misurare l’illuminamento del campo da riprendere e l’intensità di eventuali sorgenti luminose che siano presenti in esso, e ottenere così l’indicazione dell’apertura del diaframma da far corrispondere a un dato tempo di esposizione, relativamente alla sensibilità dell’emulsione della pellicola, perché questa risulti esposta correttamente”. Mi piace semplificare sempre le cose quindi cerchiamo di capire facilmente come funziona un esposimetro e cosa ci dice. È uno strumento che legge la condizione di luce presente nella scena e ci dice che tipo di diaframma e tempo dobbiamo utilizzare, a quella determinata sensibilità, per avere una fotografia correttamente esposta.
Tipi di esposimetro
Esistono diversi tipi di esposimetri esterni da quelli analogici a quelli digitali e per scopi dilettantistici e per scopi professionali. Questi tipi di esposimetro sono utilizzati posizionandoli all’interno della scena, o vicino al soggetto da fotografare, con la luce che vogliamo utilizzare e tramite una cellula fotosensibile ci da il risultato della misurazione. L’esposimetro esterno alla fotocamera ha un utilizzo di nicchia perché non è necessario averne uno esterno per poter fare delle buone fotografie.
Ma non preoccupatevi perché la fotocamera ci viene in aiuto in quanto al suo interno a livello del pentaprisma è posizionato un esposimetro. Certo la differenza tra uno interno alla fotocamera ed uno esterno è che quest’ultimo può leggere la luce direttamente nella scena o sul soggetto quindi avrà una misurazione molto più precisa.
Misurazione esposimetrica
Ho parlato di misurazione? Ed ora che cosa è questa misurazione? É il modo in cui l’esposimetro legge la luce. Esistono tre diversi tipi di misurazioni generalmente: Matrix, semi-spot e spot.
La Matrix, o potremo chiamarla automatica, legge tutta la scena inquadrata e fa una media ponderata di tutto e ci permette di esporre in modo da evitare (nel caso di forti contrasti tra luci ed ombre) toni troppo scuri (nelle ombre) o troppo chiari (nelle luci), questo lo ha studiato Ansel Adams che con il suo Sistema Zonale è ancora studiato nella scuole di fotografia.
Nella misurazione Semi-Spot la lettura avviene solo nella zona centrale dell’immagine, nel caso al centro ci sia una zona più scura tutto il resto verrà sovraesposto (con più luce) mentre se ci sarà più luce sarà sottoesposto (poca luce).
Invece nella misurazione Spot (quella che io utilizzo di più) viene letta la luce solo sul punto di messa a fuoco che abbiamo scelto, infatti questo tipo di utilizzo della misurazione può avvenire solo quando scegliamo, sulla fotocamera, il punto AF singolo. Le immagini di seguito mostrano la differenza delle tre misurazioni fotografando un panorama dove ci sono zone più scure e zone più chiare come il cielo.
Come fa l’esposimetro a dirci tutto questo?
Ma come fa l’esposimetro a dirci queste cose? Guardando nel mirino della fotocamera troviamo nella parte inferiore una scala con un + e un – e uno 0 al centro. Una volta scelto il diaframma e la sensibilità ISO da utilizzare dovremo girare la rotella dei tempi facendo in modo che nella scala (nel mirino) non ci siano lineette ne a destra ne a sinistra. Una volta fatto questo avremo la certezza di avere una scena correttamente esposta. L’esperienza ci porterà poi ad andare anche oltre perché come spiega Adams nel suo Sistema Zonale a volte c’è bisogno di avere dei tempi leggermente più lenti (sovra esposizione) o più veloci (sotto esposizione) per avere una maggiore gestione dei toni quando ci sono forti contrasti di luce. Questo è quello che bisogna sapere poi però, come tutto in fotografia, con l’esperienza si può andare oltre e gestire in modo differente la propria foto.
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